Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

domenica 23 giugno 2013

Laudato si’ mi Signore per nostro frate cane




Estratto da “Laudato si’ mi Signore per nostro frate cane”
di Susanna Barbaglia
(incontro immaginario di Francesco d’Assisi e un cane negli
ultimi giorni di vita, in una fiaba raccontata dalla protagonista al padre morente)
Il Cane sente freddo. Ma non soffre. Certo preferisce questa scossa intermittente di brividi sulla pelle piuttosto delle punture delle pulci, l’attacco delle zecche e il caldo opprimente dell’estate, che significano anche sete e arsura.
Il Cane sa di essere solo. Da sempre.
Vagamente la sua memoria sensoriale evoca il tepore di uno scarno ventre materno, l’odore salato di latte, i corpi di piccoli esseri come lui stretti a lui.
Durante il suo sonno breve le sue labbra spesso si atteggiano nell’atto di succhiare. Forse è la fame perenne ad aiutare il suo sogno atavico di vita.
Il Cane percepisce il pericolo vicino agli umani senza capire. Tutti i suoi sensi sono sempre tesi al lavoro.
Il Cane sa di non dover avvicinare il Padrone: lo ha capito quasi subito, a calci e bastonate. La sua vita è in funzione di un gruppo di docili animali da tenere uniti, da scortare nei campi di giorno e da sorvegliare di notte nella baracca.
Il Cane non sa scodinzolare. Tiene la coda, corta e sottile, stretta fra le zampe posteriori, in segno di terrore e sottomissione agli umani e ai randagi che, talvolta, incontra nei campi. È troppo fragile per essere accettato anche dai suoi simili. Per qualche incomprensibile gioco di incroci, questo cane, giovane ma già adulto, sembra un segugio, ma è grande il doppio di un gatto. Il mantello rasato grigio tortora gli si illumina sul petto in una piccola frezza bianca. Le orecchie cascanti fremono al minimo rumore. Il muso, visibilmente più sviluppato del corpo ossuto, segno tipico di rachitismo, è molto espressivo per quel suo sguardo color del pelo, attento, diretto. Triste ma limpido.
Come ogni mattina, anche questa mattina, al suo risveglio, il Cane, risponde alla fame, esce dalla baracca e si addentra nel bosco verso una piccola piana, in cerca di prede, di tane o soltanto di radici. Il tartufo rasente terra, fruga ogni anfratto, ogni cespuglio. Ha poco tempo. Lo sa. Fra breve le pecore devono raggiungere il pascolo.
Ma di colpo, in quest’alba fredda e buia, non è un odore o un rumore a fargli rizzare  il pelo lungo tutta la schiena.
Come inchiodato al terreno, trattenendo il respiro, vede e sente qualcosa di assolutamente improbabile, anche per un cane come lui.
L’Uomo sente freddo. Ma non soffre. Anche il freddo fa parte di Dio e lui Lo ama. Ama sentire se stesso vibrare nel vento come un albero. Ama stare sotto la pioggia come un passero. Ama riposare fra i sassi come una lepre. Ama fondersi nella natura per fondersi con Lui.
L’Uomo sa di essere solo. Da sempre.
Quel nodo d’amore che sente dentro come un macigno. Quella spinta irrazionale fuori di se stesso nell’Infinito. Quel bisogno di non possedere nulla, nemmeno i vestiti, e di amare e capire tutto e di averne compassione. Quella determinazione a essere meno di niente, a sacrificare ogni interesse per sé e a dare, dare, dare, a volte senza nemmeno pensare. Quell’ossessione poetica della Croce che sempre più spesso diventa pianto irrefrenabile al confronto con gli orrori del mondo.
Come può pretendere di condividere con qualcuno se non con Lui questa follia?
Perdonami. Sono stanco.
Perdonami. Sono triste per i miei fratelli che non riescono a rinunciare
a nulla per Te.
Perdonami. Non voglio più far nient’altro che parlare con Te in questo bosco.
Perdonami. Non credo che gli uomini possano amare come Tu vorresti.
Perdonami. Ma è difficile amare senza desiderare di essere amati.
Perdonami. Ma fra gli uomini mi sento solo.
C’è una piccola radura, in questo punto del bosco. E c’è un vecchio albero, forse una quercia, con le radici che fuoriescono dalla terra e si abbracciano come mani artritiche.
Poi c’è l’Uomo. Seduto sotto l’albero, vestito di un saio di sacco rattoppato color del piumaggio dei passeri, con un gran cappuccio. Le gambe incrociate lasciano cadere la veste dura nel mezzo, in una sorta di conca che accoglie le mani. Mani nude ma fasciate, aperte con i palmi in su, come foglie cadute.
Anche i piedi sono nudi e fasciati, lividi di freddo.
Il capo non si può vedere, chino quasi alle mani, completamente immerso nel cappuccio.
Ma si sente il suo lamento. Un pianto lieve che si materializza in lacrime copiose che rotolano dal viso invisibile, giù sul saio fino alle mani.
Ma la cosa incredibile sono gli uccelli. Una moltitudine di uccelli piccoli posata su di lui, che lo ricopre.
E la cosa straordinaria è soprattutto il silenzio. Totale. Tutti questi animali sono fermi sull’Uomo, muti.
Sparita. Per la prima volta la morsa della fame che stringe di continuo lo stomaco del Cane è sparita.
E il Cane non sente più nemmeno il freddo.
Striscia sul ventre, cauto, per avvicinarsi all’Uomo. Non ha paura. Sente l’odore forte del dolore. Sente l’odore tanto cercato dell’Amore. Vengono da quelle mani e da quei piedi fasciati.
E allora il Cane libera il suo istinto. Lecca piano quelle lacrime e poi abbandona finalmente il muso in quelle mani.
«Francesco! Francesco!» Mentre, come ogni mattina all’alba, sale la montagna de La Verna, il monaco chiamato Leone sa già che griderà il suo nome e lui non risponderà. Sa che ritroverà intatti pane e acqua. Sa che non lo vedrà in viso e difficilmente sentirà la sua voce.
Gli altri fratelli, anche oggi, non avranno risposte.
Francesco se ne sta andando. Lo sanno. Già da tempo non è più con loro. Da quel giorno in cui Leone l’aveva trovato con mani e piedi fasciati, muto, lo sguardo perso nel nulla.
«Che ti è successo? Ti sei ferito?» Leone era accorso ma lui l’aveva allontanato dolcemente senza rispondere, soltanto con un breve gesto della mano.
«Non vuoi sapere di noi? Siamo persi senza di te. Non vuoi sapere del nostro Concilio? E della Regola? Dicono che non l’abbia scritta tu».
No. Francesco non voleva sapere più nulla. L’unica regola è il Cristo. L’unica strada è la Sua parola. Inutile ripetere quello che per lui è così ovvio e per gli altri è solo pazzia.
Quel giorno Leone l’aveva abbracciato, piangendo in silenzio come lui.
Ma oggi la visione dell’Uomo sconvolge il monaco.
Francesco non è solo. Leone lo osserva da lontano: immobile, la testa china come sempre, le mani rivolte a Dio… ma in quelle mani c’è la testa del Cane con gli occhi verso l’alto a fissare quelli di lui, nascosti dal cappuccio.
Leone tace. Non vuole credere che soltanto il Cane abbia potuto varcare il muro del dolore di Francesco. Leone resta in attesa, guarda da lontano, ma nulla. I due, Uomo e Cane restano immobili, finché il silenzio si spezza in un grido del Pastore che scorgendo il Cane, accorre brandendo un bastone.
Il Cane non ha paura: sta fissando negli occhi l’Amore e l’Amore sta fissando i suoi occhi di cane. Sente fremere in una carezza accennata le dita fasciate dell’Uomo.
L’Uomo e il Cane stanno parlandosi con il linguaggio del cuore.
Non temere. Nessuno ti batterà.
Non temo nulla con te.
Lui ti ama.
E io amo te.
Io posso amare solo Lui.
E io posso amare solo te.
Io starò sempre con Lui. Non c’è posto per te.
E io starò sempre con te, anche se tu non mi vorrai.
Il Pastore si blocca prima di abbassare il bastone sul Cane perché una mano fasciata dell’Uomo si è levata verso di lui. Poi il cappuccio si scosta dal viso e gli occhi di Francesco quasi ciechi, piagati e umidi di lacrime semplicemente lo guardano.
Vergogna. Il Pastore non capisce perché prova vergogna. E se ne va mentre il cappuccio si riabbassa e la testa di Francesco si china di nuovo verso la terra.

1 commento:

rosa russo ha detto...

Susanna, riusciresti a fare piangere i sassi. Lo dico in senso positivo ovviamente.