Racconto di Cinzia Bossi (per “Confidenze tra amiche” n. 29, 2013)
«Il mio papà ha le ali». Oppure: «Il mio papà è stato con me e poi è volato via». Questo diceva mia figlia alle maestre che, spaventate o più semplicemente incuriosite, hanno chiamato mia moglie. La quale sorridendo ha confermato quello che lo sguardo bambino di nostra figlia riassumeva in poche parole. Ho le ali perché ho il brevetto di volo. Adoro l’aria, adoro la velocità. Quando non sono a zonzo nel cielo, mi piace correre in moto. E quando sono fermo, guardo in alto, guardo in cielo. A cercare il mio amico rondone.
L’ho incontrato dalla veterinaria che curava i miei gatti. Era piccolo, smarrito. La veterinaria diceva che molto probabilmente sarebbe morto: accade di frequente che i piccoli si sporgano dal nido, ma se cadono i genitori non li seguono a terra per nutrirli. Perché i rondoni non sanno volare partendo da terra. Hanno zampette corte che non permettono loro di camminare. Vivono volando. In volo dormono, in volo si accoppiano. Si posano sul nido solo per covare e per i pochi secondi necessari a imboccare i piccoli.
Mi sembrava innaturale che una simile creatura, nata per l’aria, non potesse volare. Se l’avevo imparato io, potevo insegnarlo anche a lui.
Così l’ho portato a casa, deciso a diventare il suo genitore adottivo. Non era in ipotermia e non sembrava denutrito. Ho recuperato una vecchia scatola da scarpe e l’ho fatta diventare la sua casa, riempiendola con un vecchio straccio e con un foglio di carta assorbente. Poi ho pensato che potesse avere fame. Non sapevo neppure da che parte cominciare a nutrirlo. Cosa mangia un rondone? E come? Ho chiesto aiuto all’amica veterinaria e ho consultato enciclopedie e siti internet: insetti. Ho riempito la casa di grilli, camole, fuchi delle api. Poi ho recuperato una siringa, di quelle che si usano per dare l’antibiotico ai bambini. Spezzettavo le camole e le riducevo in piccoli bocconi. Lo imboccavo esattamente come anni prima avevo fatto con mia figlia. Piano piano il rondone ha preso confidenza e ha iniziato a mangiare. Aveva un grande appetito, mangiava con regolarità, a ogni ora, direttamente dalle mie mani. Sollevava la testolina verso di me, mi guardava con gli occhietti color pece e offriva alla mia vista la chiazza bianca sotto il becco.
Gli ho dato anche un nome: Friss, un nome che sapeva di vento e di foglia, di volo e di nuvola. Un nome che era come un fruscio, lo stesso fruscio che speravo le sue ali avrebbero prodotto, prima o poi. E per accudire Friss ho cambiato le mie abitudini, ho rinunciato alle uscite con gli amici, ho diradato gli impegni, ho cambiato i calendari. Bisognava nutrirlo, accudirlo, aspettare che crescesse.
Quando ha preso peso e le sue ali sono diventate abbastanza lunghe, abbiamo iniziato un vero e proprio programma di allenamento. Lo prendevo nel palmo della mano e lo facevo saltellare, come una pallina da tennis, perché acquistasse il riflesso di sbattere le ali. Genitore adottivo e personal trainer, non gli facevo mancare nulla. Il tutto con una determinazione e una costanza che non immaginavo neppure di avere.
La scommessa con Friss era in primo luogo una sfida. La natura ha le sue leggi, belle o brutte che ci possano sembrare. Cadendo dal nido Friss era condannato a una fine certa. Io mi sono intromesso nella sua esistenza, ho deciso che l’avrei aiutato a crescere. Ma sapevo benissimo che l’avrei salvato solo se l’avessi poi spinto in alto nel cielo, nel suo ambiente. Viceversa, gli avrei offerto solo una proroga.
Quando mi è sembrato pronto, abbiamo provato il grande passo. L’ho portato su un altopiano, in mezzo alla natura. «Vedi, amico mio?» gli dicevo «questo è il cielo. È casa tua. Apri le ali, librati in volo». L’ho guardato, e l’ho lanciato. Trattenendo il respiro l’ho fatto rimbalzare. Poi, in un attimo, ho spinto in avanti la mano: ho chiuso gli occhi nel momento in cui lo allontanavo da me, e li ho immediatamente riaperti quando non ho più sentito il suo piccolo peso tra le dita. Ma quel primo tentativo è fallito. Friss ha aperto le ali goffamente, non è riuscito a librarsi, è caduto a terra e da lì, naturalmente, non è più riuscito a rialzarsi. L’ho raccolto e l’ho riportato a casa. Mi sentivo in colpa. Forse non era pronto. Forse quello non era un giorno giusto in cui il vento poteva prendere Friss e portarlo via con sé. Mi ritrovavo a parlargli, convinto che potesse ascoltarmi, e capirmi. Gli raccontavo delle mie ali finte, di quanto sia emozionante il contatto con l’aria, quella sensazione di vedere tutto dall’alto, di sentire odori e rumori filtrati dal vento. Friss cinguettava triste. Sembrava anche aver perso appetito, era come se si rendesse conto di avere fallito, di non essere in grado di fare ciò per cui era nato: volare, vivere in volo.
Allora, sempre più ostinato, ho ripreso il mio programma di alimentazione e allenamento. «Datti un’altra possibilità, amico mio. Anzi, diamoci un’altra possibilità. Sono convinto che tu ce la possa fare» gli dicevo, mentre lo imboccavo. «Non ti piacerebbe raccogliere in volo insetti? Non ti piacerebbe incontrare una rondonina e con lei disegnare cuori in aria, stridere felici e non fermarvi mai, se non per fare cuccioli, se non per nutrirli? E poi insegnare a loro a volare, come io ho insegnato a mia figlia a camminare? E insegnare loro a cacciare, e leggere i rumori del vento, e interpretare le correnti, e il fiatone della corsa, e la sosta fugace? Tu puoi volare, sai? Sei in grado di farlo, puoi farlo. L’hanno fatto prima di te i tuoi genitori. E i loro genitori. Sai che voi siete bravissimi? Riuscite a fare tutto, lassù in aria. Mangiate volando. E fate l’amore in cielo, amico mio. E quando proprio siete stanchi, dormite. Ma sempre volando. Perché non vi fermate mai, voi. Tu sei una creatura nata per volare. Lo so che volare è l’opposto di cadere. Ma le tue ali sapranno controllare velocità e direzione. Tu puoi farlo, se vuoi». Era un tipo duro il mio amico Friss. Tra un grillo, una camola e un discorso, ha ripreso forza e appetito.
Così, in un giorno con l’aria tersa e trasparente, ho deciso che ci avremmo riprovato. L’ho nutrito per l’ultima volta, dicendogli che da quel momento in poi avrebbe dovuto imparare a cacciare il cibo da solo. L’ho fatto uscire sul balcone, gli ho fatto respirare un po’ di sole, gli ho fatto ascoltare le voci degli altri uccelli. Avrei fatto volare Friss dall’altura da cui mi lancio con il parapendio. Facendo il pieno di quota per lui sarebbe stato meno difficile. L’ho portato fin lassù dentro la sua scatola. Uno sguardo al panorama, agli alberi e alle cime delle colline tutte intorno. Uno sguardo alla valle sotto, al prato verde, alle mucche che pascolavano. Uno sguardo al cielo azzurro e uno sguardo agli occhi neri di Friss. Non c’era più niente da dirgli, solo sperare. «Vai, amico mio». L’ho lanciato. L’ho visto abbassarsi, le ali non abituate al volo stentavano, il suo piccolo corpo sembrava in balìa dell’aria. L’ho visto ritrovare l’equilibrio. E poi due rondoni gli si sono affiancati, come a insegnarli il modo più corretto per volare. L’hanno accompagnato per un pezzo, e tra di loro lui ha ritrovato la sua sapienza antica, la memoria di un gesto naturale. L’ho seguito con lo sguardo fino a quando è diventato un puntino piccolo, il braccio ancora alzato nell’ultimo saluto. Poi è tornato indietro, fino alla mia mano. L’ha sfiorata appena, e da lì è ripartito.
Buon viaggio, amico mio. Quando guardo in alto, nel cielo, so che ci sei. E che porti in giro i miei sogni, perché i sogni sono così leggeri da poter restare appesi al tuo volo.
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