Antonella Tomaselli (Storia vera di Renato M., da "Confidenze tra amiche", numero 3, 2012)
La storia che vi voglio raccontare comincia qualche anno fa, quando Elena, mia moglie, mi disse che desiderava tanto una cagnolina. La sua determinazione era così forte che alla fine capitolai e acconsentii. Del resto io cercavo sempre di accontentarla, mi piaceva la luce che avevano i suoi occhi quando un suo desiderio si realizzava. Eravamo sposati da tanti anni e i nostri figli vivevano da soli ormai da tempo. Lei voleva una femminuccia di razza Yorkshire Terrier. Allora iniziai a informarmi e telefonai all’allevamento migliore per conoscere la disponibilità. Mi dissero che doveva giusto nascere una cucciolata e mia moglie aspettò con ansia il lieto evento. Come fu felice quando apprese che la nostra piccolina era nata! Mi sorrideva estatica dalla sua sedia a rotelle. Sì, da alcuni anni era questa la sua condizione. Non a caso aveva scelto un cane di taglia piccola: così avrebbe potuto tenerselo sulle ginocchia senza problemi. Seguimmo telefonicamente la crescita della nostra cucciola e in diversi momenti della giornata pensavamo a come l’avremmo chiamata e a quando sarebbe arrivata da noi. Passarono tre mesi e l’allevatrice ci disse che la nostra cagnolina era pronta. Mi misi d’accordo per andare a prenderla il sabato successivo. Elena non stava più nella pelle!
Ma poi accadde qualcosa di terribile. Due giorni prima della mia partenza mia moglie stette molto male.
E morì.
Accadde tutto in modo così improvviso e il mio dolore e quello dei nostri figli fu insopportabile.
Elena lasciava un vuoto incolmabile.
Poi ci fu il funerale, poi la vita che doveva continuare. Tutto troppo pesante.
Diversi giorni dopo mi ricordai della cucciola. Che fare? Ormai Elena non c’era più. Però pensai che l’aveva desiderata tanto e forse era giusto che quella piccola yorkie venisse nella nostra casa. Forse era l’ultimo regalo che potevo fare a mia moglie: realizzare un suo desiderio, anche se lei non era più qui con me. Telefonai all’allevatrice, le spiegai la situazione e le chiesi di tenere la cucciola ancora per un po’ di tempo, fin quando non mi fossi un pochino ripreso e riorganizzato. Circa due mesi dopo salii su un aereo e volai a prenderla. Non ero sicurissimo che fosse la cosa più giusta, ma pensavo a Elena e le dicevo: “La nostra cucciola si chiamerà Briciola, come volevi tu”. E mi sentivo meglio. Quando vidi la yorkina rimasi incantato: era un batuffolo di pelo, con due occhi dolcissimi. Si avvicinò subito a me, un omaccione sconosciuto, per niente timorosa. Mi annusò, lambì con la sua linguina la mano che le tendevo, e poi si accucciò ai miei piedi, masticando i lacci delle mie scarpe.
Mi ispirava una tenerezza infinita che mi sembrò di condividere con mia moglie. Con quella piccolina tra le braccia, sentivo palpabile anche la presenza di Elena accanto a me. Tornai a casa con la nostra cagnolina e le insegnai il suo nome. Be’, non il nome altisonante che compariva sul suo pedigree. Lei si sarebbe chiamata solo “Briciola”. Lo imparò immediatamente e questo fu il primo atto della nostra vita insieme. Ripresi anche il mio lavoro, ma mi dispiaceva lasciare la piccola da sola, allora spesse volte la portavo con me. Crescendo lei si faceva sempre più bella e con leggerezza esprimeva la sua innata eleganza ad ogni passo, in ogni movimento. Ma soprattutto viveva per me, e mi faceva una compagnia smisurata. Quelle poche volte che la lasciavo sola mi accoglieva al rientro con tanta felicità da lasciarmi senza fiato: uggiolava di gioia, mentre si contorceva in danze svariate e turbinii di coda. La lasciavo sfogare un po’ mentre ricambiavo i suoi saluti e poi la prendevo in braccio, carezzandola per calmarla. Quando la rimettevo a terra correva a prendere una pallina o uno qualsiasi dei suoi giocattolini e poi mi seguiva passo per passo, invitandomi al gioco.
Ogni tanto le raccontavo di Elena, di come l’aveva desiderata, di come le avrebbe voluto bene.
Passò del tempo e un giorno una compagnia americana mi propose un lavoro in Afghanistan, precisamente a Kabul. Ci sarei dovuto rimanere per cinque mesi. Non sapevo come fare con Briciola, ma alla fine decisi di affidarla a mia sorella. Partii. Fu un periodo durissimo, carico di numerosi pericoli, dovevo perfino stare attento a dove mettevo i piedi, perché era facile incappare in una mina. Lavoravo e lavoravo, cercando di non pensare ad altro. L’unico mio conforto era chiamare in Italia, con il telefono satellitare, per sentire la voce dei miei figli e di mia sorella. E per sapere di Briciola. Mi mancavano tanto.
Finalmente tornai a casa e mi presi un periodo di riposo insieme alla mia cagnolina. La piccola era diventata quasi morbosa: non potevo lasciarla un attimo. Sono sicuro che nella sua testolina temesse di essere nuovamente abbandonata. Certamente mia sorella l’aveva trattata come una principessa, ma io ero, lasciatemelo dire, “il suo papà!”.
Quando la stessa compagnia americana mi propose un lavoro di sei mesi in Iraq andai in crisi. Accettare significava lasciare ancora Briciola. Inoltre sarebbero stati sei mesi molto duri e in solitudine. Ero combattuto. Ma dovevo dare rapidamente una risposta.
Accettai, ma ad una condizione: Briciola doveva venire con me!
Incominciai subito ad organizzarmi e nei miei bagagli misi anche crocchette e scatole di cibo per cani, più la cuccetta di Briciola e qualche guinzaglio. E la sua spazzola, più i suoi giocattoli preferiti. Prima della partenza, la portai dal veterinario, che verificò che fosse tutto apposto e mi consigliò alcuni medicinali da portare in caso di emergenza.
Così cominciò questa nuova avventura. A questo punto è bene che io spieghi a grandi linee qual è il mio lavoro: la mia qualifica è quella di “supervisore alla tecnologia” e insegno ad organizzare magazzini di stoccaggio e smistamento. E’ un lavoro completamente computerizzato e ha una certa complessità. Ma a me piace, anche se svolgerlo in certi paesi può presentare qualche problema. Per prudenza in quei paesi evito i luoghi troppo affollati, per la paura di attentati, e conduco una vita quasi monacale, fatta di lavoro e, nel tempo libero, di letture. E’ difficile partecipare alla vita del posto e fraternizzare con persone dagli usi e costumi così diversi dai miei, ma soprattutto è rischioso.
Arrivai dunque in Iraq con la piccola Briciola. Dall’aeroporto andai direttamente nella bella casa che mi era stata assegnata e disfati i bagagli mi recai al lavoro. Con Briciola in braccio. Avevo una specie di “drappello” di scorta, che mi accompagnava in ogni mio spostamento e due persone al mio servizio che si occupavano della casa e di prepararmi la cena. Loro furono i primi a stupirsi di Briciola, in primis lo stupore era dato dal contrasto tra la mia immagine di uomo tutto d’un pezzo, ben vestito e pure di una certa età, e il fagottino di pelo che immancabilmente tenevo tra le braccia; un altro motivo di sorpresa era il mio modo di trattare il mio cane, talmente diverso dal loro, che vedevano il cane come il randagio che vive di espedienti. Anche quando arrivai al magazzino notai sguardi stupefatti. Del resto io ero lì come “maestro”, per insegnar loro come lavorare. E penso che si aspettassero di tutto, meno che un uomo con un piccolo cane al seguito. Comunque non mi giunse mai nessun commento negativo all’orecchio, a meno che il mio interprete personale abbia a volte omesso qualche traduzione troppo alla lettera. Ma non penso, perché nonostante la mia parvenza strana ai loro occhi, tutti provavano una certa soggezione nei miei confronti. Solo una volta sorpresi un collaboratore del posto che ridacchiava guardando me e Briciola. Lo fulminai con lo sguardo e feci tradurre nella sua lingua (molto simile al “farsi”), con un tono che non ammetteva repliche: “A me i cani piacciono!” . L’uomo abbandonò immediatamente l’espressione di scherno che aveva dipinta sul viso per assumerne una di grande imbarazzo. Devo dire che da quel momento in poi non ci parlammo molto, solo lo strettissimo necessario.
Le mie giornate laggiù si dipanavano sempre con ritmi uguali, mi alzavo verso le otto del mattino e mi preparavo una piccola colazione accompagnata da un tè o da latte condensato (là il latte fresco era solo quello di capra, che a me non piace), poi mettevo in una piccola ciotola qualche crocchetta per Briciola e mangiavamo in compagnia. Quindi mi preparavo per andare al lavoro. Briciola si era ben presto adeguata alle nuove consuetudini e mi aspettava seduta vicino alla porta. Quando ero pronto le dicevo: “Andiamo” e lei tutta sorridente si lasciava mettere il guinzaglio e prendere in braccio. Arrivavamo nel magazzino e per tutta la giornata rimaneva appiccicata a me. Camminava al mio fianco o si accoccolava in braccio, oppure la infilavo nella mia camicia e spuntava solo il suo musetto curioso. Se ne stava sempre buona buona: le bastava essere accanto a me. Poi, la sera, ritornavamo a casa. A volte incaricavo la donna che cucinava per me di preparare qualcosa anche per la mia cagnolina, e le facevo mille raccomandazioni perché non ci mettesse nemmeno un’ombra di paprika, una spezia molto usata in Iraq. Ma per estrema sicurezza prima di allungare la pappa a Briciola, l’assaggiavo io. Avevo una paura folle che si ammalasse. In quel caso cosa avrei fatto? Non c’era certo il nostro veterinario di fiducia a portata di mano. Non mi sarei perdonato se le fosse successo qualcosa. Quando andavamo a dormire Briciola saltava sul letto, raspava un po’ con le zampe come per sistemare meglio il lenzuolo e poi si accucciava, sempre vicino a me. O meglio, “incollata”a me. A volte, se rimaneva leggermente più distante, le bastava allungare una zampina fino a sfiorare il mio braccio o la mia testa. E così si addormentava.
In tutto quel periodo accadde solo un episodio che mi fece davvero spaventare. Era sera, avevamo già cenato. Io e Briciola, come al solito, eravamo in casa da soli. Stavo leggendo uno dei tanti libri che mi ero portato dall'Italia, quando sentii nascermi dentro una strana e immotivata inquietudine. Staccai gli occhi dal libro e mi guardai intorno: tutto a posto, tutto immobile e tranquillo. Stavo ancora passando in rassegna lo spazio intorno a me, quando me ne resi conto: Briciola non c'era. Abbandonai di scatto la poltrona e il libro e corsi in ogni stanza chiamando a gran voce il mio cane.
L'angoscia intanto cresceva. Più volte controllai la porta d'ingresso, ma, come sempre, era chiusa a chiave, dunque la piccolina non poteva essere uscita. Però non era nemmeno in casa. I pensieri più neri mi affioravano in testa insieme a non ben definiti, ma prepotenti, sensi di colpa. Mi sembrava tutto irreale, impossibile. Continuavo a chiamarla, ma sempre senza risposta. L'ansia aumentò ancora quando mi folgorò un pensiero: forse era sgattaiolata all'esterno quando erano uscite le persone di servizio. Forse non l'avrei più trovata.
Mi precipitai fuori, ma di Briciola nemmeno l'ombra, sembrava essersi dissolta nel nulla.
Rientrai ormai in preda all'angoscia e ripresi a guardare in ogni angolo della casa, sempre gridando il suo nome.
A un tratto udii un abbaio piccolo e soffocato. Proveniva dalla camera da letto. Mi precipitai in quella stanza, ma di Briciola nemmeno l'ombra. Le dicevo: "Rispondi piccola! Briciolina abbaia di nuovo, ti prego!". Poi l'intuizione: corsi a spalancare le ante del grosso armadio davanti al letto. E lei era lì! Mollemente adagiata sulla biancheria del ripiano più basso. Di sicuro la piccola aveva trovato comodo rilassarsi in quel posto e qualcuno ce l'aveva inavvertitamente rinchiusa. La presi in braccio e la strinsi al cuore, cercando di calmare l'agitazione che sentivo ancora in tutto il corpo. Poi la rimisi a terra.
Anch'io mi stesi a terra, per essere alla sua altezza. Faccia a faccia con quella birichina, cominciai a sgridarla sussurrandole: "Briciola, non si deve entrare negli armadi! E tu sei stata davvero ... davvero ... quasi "bruttina". Ecco. Sì, questa è la giusta definizione: quasi bruttina!".
Sull'ultima "bruttina", Briciola allungò il collo verso di me e prese a leccarmi la punta del naso con una certa concentrazione.
Ma a parte questo spavento, la mia cagnolina sembrava essere accanto a me solo per tenermi alto il morale e fu grazie a lei che i giorni scivolarono quasi indolori e senza solitudine.
Finì anche quel periodo e ritornammo in Italia. Prima di partire salutai il mio gruppo di lavoro in modo piuttosto formale, ma negli occhi di alcune persone lessi uno sguardo diverso nei confronti del mio cane, di maggior accettazione o comprensione. Ma forse mi sbaglio, forse era solo un mio desiderio. In Iraq non mi sono trovato male, ma in alcuni paesi in cui ho lavorato cani, gatti e donne non erano ritenuti degni di alcuna considerazione. E questo mi ha fatto sempre sentire a disagio.
Ora sono in Italia e io e Briciola siamo in vacanza. Certo che lei è un cane speciale. Pensate che addirittura mi avverte con un piccolo abbaio qualche istante prima che squilli il telefono. Come fa? Davvero non lo so. Ma questo è ciò che succede ogni volta.
Anche adesso. Infatti, passano alcuni secondi dal suo abbaio avvisatore e il telefono suona. Rispondo. E' una nuova proposta di lavoro. Sempre in un paese lontano e a rischio. Cosa farò? Ancora non lo so. Solo una cosa è certa, se accetterò, la mia piccolina verrà con me. Mi abbandono su una poltrona immerso in questi pensieri.
Mi riscuoto solo verso l'ora della passeggiata pomeridiana, la mia cagnolina sonnecchia sdraiata accanto a me. La chiamo e lei con un balzo è già all'erta, mi guarda e pende dalle mia labbra, attentissima per afferrare il significato delle mie parole e dei miei gesti. Piena di gioiosa aspettativa. Le dico: "Sai, forse partiremo di nuovo". Lei scodinzola. Non so fino a che punto possa capire, ma so che è felice se sta con me. Per lei io sono tutto, lei mi ama di amore immenso e puro, come solo i cani sanno fare.
Ed è un'emozione che mi riempie il cuore. E poi Briciolina è una carezza dolce e lunga che spartisco ancora con la mia Elena.
2 commenti:
molto carina come storia
commovente,bellissima.......
Posta un commento