Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

venerdì 30 agosto 2013

Un pony per amico




Un pony per amico di Antonella Tomaselli (Storia vera di Angelica L., da “Confidenze tra amiche”, numero 26, 2013)


“Sarà bianco! No, nero. Ma anche tutto marrone mi piacerebbe. Anche a macchie. Anche a righe!” mi diceva Alex, il mio bambino, accompagnando le ultime parole con dei risolini.
“Sì, vuoi forse una zebra?”, gli rispondevo io, per stare al gioco.
Mio figlio aveva cinque anni quando, insieme, sognavamo di avere un cavallo.
Non so chi dei due, seppure in modo diverso, lo desiderasse di più. E lo volevamo pure speciale. Ne avevamo visti un bel po’, ma nessuno ci aveva convinti. Alcuni erano molto belli, altri un pochino meno, ma nessun colpo di fulmine. Uno aveva pure cercato di mordere mio figlio, un altro ci era parso troppo nervoso, un altro ancora era troppo grande, e via di questo passo. Un giorno, nei nostri giri alla ricerca di un destriero, ci imbattemmo in un pony in vendita. Ma io ero un po’ perplessa. Sapevo che i pony hanno un carattere piuttosto bizzarro. L’allevatore però insisteva. Anzi, a sorpresa, prese il mio bimbo e lo mise in groppa al cavallino. Alex si sentì come un piccolo principe e mi sorrideva. Il pony era tranquillo e … radioso (potrà sembrare strano, ma “radioso” è proprio l'aggettivo giusto). L’allevatore gli fece fare qualche passo, poi una brevissima corsa. Il cavallino e il mio bimbo sembravano un’unica cosa, assolutamente armonici. E poi quel pony aveva una dolcezza speciale nello sguardo. Ok, non avevo mai pensato di comprare un pony, ma questo piccolino mi sembrava stesse giusto aspettando noi. Decisi di prenderlo. Alex saltava di gioia. Dissi all’allevatore che avrei parlato con mio marito e che saremmo in seguito tornati a prenderlo con un trailer. Lui mi rispose: “Ma non è necessario. Questo cavallino è tanto buono, e poi è piccino. Lei ha una macchina grande, lo carichi e lo porti a casa!”. La parte irrazionale e giocosa di me rispose subito di sì. Così io e Alex ci ritrovammo a viaggiare in auto col cavallino. Aveva il muso tra le nostre teste e la coda fuori da un finestrino. L’avventura era cominciata bene! Per fortuna arrivammo a casa sani e salvi tutti e tre.
Lo chiamammo Jed. Aveva la sua piccola stalla, in fondo, oltre il giardino. Era estate e noi spesso mangiavamo all’aperto sotto il porticato o sotto il gazebo, e Jed veniva da noi e poi appoggiava il suo muso sulla mia spalla, e rimaneva così fin quando non mi alzavo da tavola. A volte mi mettevo in bocca un grissino, glielo porgevo e lui me lo prendeva dalle labbra con una delicatezza indicibile, impensabile in un cavallo. Quando lo portavo nei campi che costeggiavano la casa sulla destra, gli dicevo: “Jed, la facciamo una bella corsetta?”, poi schioccavo la lingua (questo era il nostro segnale!) e lui partiva come un razzo. Correva, saltava, frenava, ripartiva, scartava: argento vivo e felicità.
Una volta lo stavo legando a un palo, quando, nel giro di una manciata di secondi, Jed, trotterellando in tondo, mi avvolse con la  sua corda. Persi l’equilibrio, feci giusto in tempo a gridare: “Fermati!”, ma finii comunque col sedere per terra. Un tonfo spettacolare. Il cavallino si fermò subito. Se si fosse messo a correre mi avrebbe inevitabilmente trascinato. Dalla mia postazione, ancora con le gambe all’aria, intravidi mio marito e mio figlio, che divertiti, ridevano a crepapelle. Jed guardava la scena pacifico. Non posso esserne sicura, tuttavia mi sembrò di notare lampi di sorrisi guizzare, a più riprese, nei suoi occhioni.
In estate spesse volte andavamo fino al fiume che scorre poco lontano da casa, a prendere il sole e a fare il bagno. Veniva anche Jed. Quando ci tuffavamo in acqua si aggregava. Tutti abili nuotatori, seguivamo il senso della corrente per un buon tratto. Poi nuotavamo fino alla sponda opposta. In fila: io, Alex, mio marito e Jed. Uscivamo dall’acqua e ci asciugavamo al sole, mentre Jed cercava qualcosa di commestibile sulla riva. Poi rifacevamo il percorso all’inverso. Sempre col nostro pony che nuotava tranquillo e contento accanto a noi. Però lui era anche un birichino! Per esempio dopo la nuotata, quando si risaliva per tornare a casa, lui si metteva a correre e spariva dalla nostra vista. E sapete dove andava? Ci aspettava un po’ più su, nascosto dietro alcuni alberi. Quando io, Alex e mio marito ci avvicinavamo lui nitriva, scuoteva un po’ la testa in su e in giù (anche lì mi sembrava davvero che sorridesse) e poi  correva di nuovo ad aspettarci nascosto dietro ad alberi e arbusti più lontani. Ci teneva così allegri con la sua voglia di giocare! Ve ne racconto un’altra delle sue: gli avevo vietato di andare in giardino, perché temevo che mangiasse i miei fiori, a cui tengo tanto. In effetti qualche volta l’avevo visto avvicinarsi troppo pericolosamente ai fiori e l’avevo sgridato. Be’, lui aveva capito che erano “out” e si teneva alla larga. Ma non sempre: se io ero nei paraggi lui andava in giardino e appoggiava il muso ora sulle rose, ora sulle dalie. Col naso incollato ai fiori, fermo (muoveva solo gli occhi, per tenermi sotto controllo), aspettava che me ne accorgessi. La mia reazione arrivava all’istante: cominciavo a sbraitare contro di lui correndo nella sua direzione. Jed rimaneva immobile, il muso appiccicato alle corolle, fino a quando ero a tre passi da lui. A quel punto, veloce, batteva in ritirata. Non potevo vedere la sua espressione, ma ogni volta immaginavo che ridesse. Come viene da ridere a me ora, ricordando. Qualche volta me lo ritrovavo alla finestra della cucina a mendicare bon bon. Se si annoiava mi chiamava dal cortile con un nitrito. Allora io andavo da lui. Quando non potevo glielo gridavo: “Adesso non posso, vengo più tardi”. E lui mi aspettava. Se non rispondevo si arrabbiava e mi teneva il broncio per un bel po’. Che tipo il mio cavallino!
Poi, un giorno tutto precipitò. Erano passati dieci anni da quando Jed era arrivato nella nostra vita, quando  si ammalò. Interpellai diversi veterinari. Purtroppo la situazione era grave. Tentammo una cura. Sembrava che funzionasse, infatti qualche giorno dopo Jed mi corse incontro nitrendo. Ero felice. Allargai le braccia per abbracciarlo. Appoggiò il muso sul mio petto e si accasciò. Non riuscivo a tenerlo, era troppo pesante. Cominciai a gridare chiedendo aiuto. Finii per terra, con la testa del mio cavallino appoggiata in grembo, piangevo e gli gridavo di non lasciarmi.
Anche Jed piangeva. Grosse lacrime gli rigavano il muso.
Nel frattempo qualcuno aveva chiamato il veterinario. Arrivò subito, ma disse che per Jed non c’erano più speranze. Gli gridai: “Non posso vederlo soffrire così. Aiutalo. Fallo dormire”.  Jed ancora piangeva, poi mentre la morte dolce lo abbracciava, si rilassò. E poi il niente. Solo il suo corpo vuoto, con la criniera mossa dall’aria. L’ultima immagine, sul camioncino che lo portava via, per il suo ultimo viaggio. Sentii la mia voce che urlava: “Fermatevi!”.  Corsi, lo accarezzai per l’ultima volta, mi tolsi il giubbotto e glielo appoggiai addosso. Gli mormorai: “Non vorrei che tu avessi freddo. Ciao Jed”. Poi lo lasciai andare.

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