Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

mercoledì 11 settembre 2013

La mia amica Beatrice




La mia amica Beatrice di Antonella Tomaselli (Storia vera di Emanuela R., da “Confidenze tra amiche”, numero 36, 2013)


Molti hanno un cane, altri un gatto, altri ancora un canarino. Qualcuno ha un coniglietto. C’è chi ha una tartaruga e chi ha un cavallo. C’è anche chi ha un pesce rosso in un vaso di vetro a forma di palla oppure tantissimi pesciolini colorati radunati in un acquario. E conosco un tipo che ha un serpente in soggiorno. Ma, ditemi, quante persone hanno un cinghiale come animale da compagnia?  Be’, io l’ho avuto. E’ stata un’esperienza non semplice, ma bellissima, resa possibile, nel mio caso, da un prerequisito non comune: i miei genitori, anni fa, avevano un allevamento di cinghiali. Che storia straordinaria quella di Beatrice, la mia cinghialessa! Ve la racconto? C’era una volta (ma c’era davvero, non è una favola) una femmina di cinghiale che non riusciva a partorire. Rivedo, nella mente, tutta la scena, nei minimi particolari.  Era una notte di tarda primavera e mia mamma era preoccupata. Scuoteva la testa e mormorava: “Non ce la fa. Questa volta non va”. Aggrottava ancor di più le sopracciglia e non smetteva di massaggiare il ventre del grosso animale steso a terra. Di tanto in tanto, cambiava tono e, rivolta alla cinghialessa, sussurrava: “Metticela tutta. Spingi. Non mollare!”. Io ero seduta su una grossa cassa di legno e osservavo la scena. Ero tanto in pena anch’io e avrei voluto essere d’aiuto. Chiesi: “Mamma, ci riprovo?”. Mia madre fece cenno di sì con la testa. In un lampo balzai giù dalla cassa e corsi verso casa. Presi il telefono e composi, per l’ennesima volta, il numero del veterinario. Squilli a vuoto.
Il veterinario era irreperibile. Mio padre non c’era e io ero solo una ragazzina. La mamma era in prima linea, da sola, a gestire quella situazione così difficile. Tornai da lei e vidi che il primo cinghialetto stava per nascere. Ancora una spinta e finalmente fu fuori. Però non si muoveva, non respirava. Era un fagottino inanimato. Nato morto. Pensai: “Tutta questa fatica per niente”. Mi riferivo alla cinghialessa, che appariva stremata. Mi dispiaceva per lei, oltre che per il piccolino. Mia mamma continuava, con gesti sapienti, a massaggiarle la pancia. Al ritmo di uno ogni quindici minuti circa, nacquero ancora cinque cinghialetti.  Solo due vivi.
La cinghialessa respirava sempre più faticosamente, intervallando grugniti sordi a deboli gemiti. I suoi piccoli occhi obliqui erano fermi nel nulla. Poi, l’ultimo respiro. Mia mamma era così addolorata,  arrabbiata e frustrata. Si sedette per terra, stanca. Mi rannicchiai accanto a lei. Volevo consolarla. Ma non mi veniva niente di giusto da dirle. Eravamo circondate da cadaveri.
I due piccoli vivi si agitavano, avevano fame. Li accarezzai sul musetto e loro presero a succhiarmi le dita. “Mamma, questi due orfanelli, possono restare con me?”, chiesi. Mia madre mi guardò, un po’ stranita. Mi rispose che li avrei potuti tenere, ma che le sembrava davvero bizzarro. Aggiunse, con un mezzo sorriso: “Li porterai a spasso con un guinzaglio?”. Poi, tornata seria, disse: “Adesso dobbiamo occuparci di questi due piccolini”.
Preparammo due biberon di latte. Appena i cinghialetti ne avvertirono il sapore, cominciarono a succhiare con avidità. Erano buffissimi. Concentrati sul biberon con indicibile fervore. Un maschietto e una femminuccia. “Si chiamano Beatrice e Filippo”, dissi alla mamma.
Ormai albeggiava. I due piccoli si erano addormentati nelle nostre braccia. Riuscite anche voi a vedere la scena? Una donna dai capelli lunghi e dagli occhi neri accesi, con accanto una ragazzina con gli stessi suoi colori. Tra le loro braccia dormono beati due piccoli cinghiali biondi, con strisce più scure. Fantastico. Ma andiamo avanti col racconto: misi Beatrice e Filippo in una grossa scatola di cartone e li portai in casa, nella mia camera. Poi, ogni ora, giorno e notte, preparavo loro un biberon di latte. Li tenevo ben puliti e coccolati. Crescevano a vista d’occhio. Quando arrivarono a pesare una trentina di chilogrammi, la mamma, con un tono che non ammetteva repliche,  sentenziò: “Sono bellissimi, ma devono stare fuori di casa”. Così, costruimmo una piccola e confortevole stalla, tutta per loro. Io passavo molto tempo con Beatrice e Filippo. Ci giocavo come se fossero cagnolini. Un giovedì come tanti, io e la mamma andammo al mercato. Quando tornammo la tragedia si era già consumata. Ancora prima di entrare in casa io corsi a salutare i miei cinghialetti. Ma Filippo era morto. Nella loro stalla qualcuno aveva dimenticato una corda legata a un paletto. Non so come, probabilmente nel gioco, la corda era finita intorno al collo di Filippo, e lui, nel tentativo di liberarsi, aveva invece stretto sempre di più il cappio, fino a impiccarsi. Urlai e piansi con il piccolo fra le braccia. Mia madre, addolorata, mi accarezzava i capelli. Beatrice continuava a girarmi intorno. La mamma prese Filippo. Lo seppellimmo in fondo al nostro grande giardino. Al piccolo corteo funebre partecipò anche la sorellina di Filippo. Non so se avesse capito ciò che era successo, ma sembrava un po’ “sperduta”, e non si allontanò mai da me. Non potevo riportarla nella stalla dove era morto Filippo. Alla fine, dopo tante insistenze, riuscii a convincere la mamma: Beatrice sarebbe ritornata a stare in casa con noi. Non fu una convivenza facile. Lei era adorabile, mi seguiva come un cane gentile. Ma cresceva. Divenne una cinghialessa enorme. E puzzava. Tanto. A un certo punto, dovetti rassegnarmi a portarla di nuovo nella sua stalla. Di giorno stava con me, in giardino o nei campi. Di sera era una lotta per riportarla a “casa sua”. Dovevo escogitare sempre nuovi stratagemmi. A volte, quando la fantasia mancava, la facevo entrare spingendola con tutta la mia forza, altre volte le afferravo il grosso muso e la tiravo. Ma ottenevo più risultati alternando tirate e spinte. Lei valeva tutte queste fatiche. La chiamavo: “Bea, vieni a darmi un bacino”. Lei veniva e mi sfiorava la guancia con una delicatezza inaudita, nonostante le due zanne, lunghe così, che aveva ai lati della bocca. Una volta mi vide con un biberon che avevo preparato per una  capretta nata da poco, si agitò a dismisura: lo voleva. Dovetti cedere ai suoi desideri e glielo porsi. Be’, si mise a succhiare come quando era cucciola, con la stessa intensa beatitudine.
Morì di vecchiaia, un giorno ormai lontano, quando il nostro allevamento era già chiuso da tempo. Fu felice con me. E anch’io con lei. E’ piuttosto buffo, ma ho sempre pensato che lei si sentisse più una “ragazza” che una cinghialessa. Non fece mai amicizia con gli altri cinghiali. Qualche volta le proponemmo anche un marito. Ma lei non accettò mai nessun corteggiatore, anzi, li picchiava tutti. E’ passato tanto tempo e sono cambiate tante cose, ma non mi scorderò mai di Bea. Mi ha insegnato che anche i cinghiali hanno un cuore, che siamo tutti creature di Dio. E che a ogni essere vivente dobbiamo amore. E rispetto.

3 commenti:

Rosa russo ha detto...

Antonella, l'avevo già letta sul giornale e ti avevo fatto i complimenti. Li rinnovo: sei bravissima.

Euterpe ha detto...

Proprio bello. Ciao

Euterpe ha detto...

che bel racconto