Mosè, Salvato tra i giunchi (tratto da Storie di gatti di James Herriot, Rizzoli, 1994)
Finii di asciugarmi le braccia, e stavo per accennare con noncuranza al micino, quando il signor Butler mi tese la giacca.
«Venga con me, se ha un minuto di tempo» disse. «Ho qualcosa da mostrarle.»
Lo seguii oltre una porta in fondo al locale e lungo un corridoio che portava al porcile, stretto e basso. Si fermò all’altezza di un recinto a mezza strada e puntò il dito.
«Guardi qui» disse.
Mi sporsi a guardare da sopra il muretto, e il mio viso dovette assumere un’espressione di profondo stupore, perché il contadino scoppiò in una sonora risata.
«È una novità per lei, eh?»
Fissai incredulo una grossa scrofa stesa comodamente su un fianco, che allattava una cucciolata di una dozzina di maialini, e proprio al centro della lunga schiera rosea, nero, peloso e assurdo, ecco Mosè. Aveva un capezzolo in bocca e succhiava il latte con lo stesso estatico piacere dei teneri, nudi compagni che lo fiancheggiavano.
«Cosa diavolo…?» farfugliai.
Il signor Butler stava ancora ridendo. «Lo sapevo che non doveva aver mai visto una cosa del genere, come me, del resto.»
«Ma com’è successo?» Non riuscivo a staccare gli occhi dalla scena.
«L’idea è stata della mia signora» rispose. «Quando è riuscita a insegnare al piccolino a lappare il latte, l’ha portato fuori per trovargli una sistemazione al calduccio nelle cascine. Ha scelto questo recinto perché Bertha, la scrofa, aveva appena figliato, e io ci avevo piazzato una stufetta, ed era comodo e spazioso.»
Annuii. «Mi sembra giusto.»
«Be’, ci ha sistemato Mosè con una ciotola di latte,» riprese a dire il contadino «ma il piccoletto non c’è rimasto per molto vicino alla stufetta… quando sono tornato a dare un’occhiata, si era accomodato in latteria.»
Scrollai le spalle. «Dicono che nel nostro mestiere ogni giorno s’impara qualcosa di nuovo, ma questa è una cosa di cui non avevo mai sentito parlare. Comunque, ha tutta l’aria di trovarsi benone: si nutre solo di latte della scrofa o ne beve ancora dalla ciotola?»
«Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, secondo me. Difficile dirlo.»
In ogni caso, quale che fosse il nutrimento che assumeva, Mosè crebbe in fretta, trasformandosi in un bell’animale guizzante col mantello di una straordinaria lucentezza, il che poteva dipendere o meno dall’elemento porcino contenuto nella sua alimentazione. Quando andavo alla fattoria dei Butler, non mancavo mai di dare un’occhiata nel porcile. Pareva che Bertha, la madre adottiva di Mosè, non ci trovasse nulla di strano, in quel peloso intruso, e lo accudiva con noncuranza, grugnendo soddisfatta, come faceva col resto della sua nidiata.
Mosè, per quanto lo riguardava, dava l’impressione di trovare di suo gradimento il mondo dei maiali. Quando i porcellini si accoccolavano l’uno sull’altro a schiacciare un pisolino, nel mucchio c’era anche lui, e quando, a otto settimane, i suoi giovani colleghi furono svezzati, il micio manifestò il proprio attaccamento a Bertha trascorrendo con lei la maggior parte del suo tempo.
E le cose rimasero così nel corso degli anni. Mosè saltava spesso nel recinto, strofinandosi beato contro la massa consolante della scrofa, ma io lo ricordo soprattutto nel suo posto preferito: accovacciato sul muretto a guardare dall’alto, forse meditabondo, quella che era stata la sua prima, calda dimora.
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