Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

giovedì 6 marzo 2014

L’anello di Re Salomone




“L’anello di Re Salomone”, di Konrad Lorenz (Gli Adelphi. 2007)

Il sabato di Pentecoste sarebbe dovuta venire alla luce una covata di anatroccoli puro sangue; io misi le uova nell'incubatrice, e quando i piccoli furono asciutti li presi sotto la mia custodia e cominciai a far loro quel verso materno nel mio migliore accento di anitra selvatica. Per alcune ore, per una mezza giornata. Il mio «qua qua» ebbe successo: gli anatroccoli guardavan su confidenti verso di me; evidentemente, questa volta, non avevano paura; e quando, continuando a fare «qua qua...» incominciai ad allontanarmi lentamente, anch'essi ubbidienti si misero in moto e mi seguirono in un piccolo gruppo compatto, proprio come di solito gli anatroccoli seguono la madre. La mia teoria aveva ricevuto una conferma irrefutabile: gli anatroccoli appena usciti dall'uovo hanno una reazione innata al verso di richiamo, ma non all'immagine ottica della madre. Qualsiasi cosa che emetta il giusto verso di richiamo viene considerata come madre, si tratti di unagrossa e bianca anitra pechinese o di una ancor più grossa figura umana. Però l'oggetto sostitutivo non deve essere troppo alto! All'inizio di questo esperimento io mi ero seduto sull'erba e, per ottenere che gli anatroccoli mi seguissero, avevo incominciato a spostarmi rimanendo accucciato. Ma appena mi rizzai in piedi e tentai di precederli in posizione eretta, essi non mi seguirono e cominciarono a guardarsi intorno, cercandomi evidentemente da tutte le parti, ma senza volgere lo sguardo in alto, verso di me, e incominciarono subito a emettere quel lamentoso pigolio dell'abbandono che usiamo in genere chiamare semplicemente «pianto»: non riuscivano ad abituarsi al fatto che la mamma sostitutiva fosse divenuta così alta. Per farmi seguire fui quindi costretto ad avanzare tutto accucciato, in posizione assai poco comoda; e ancor meno comodo era il fatto che una vera madre anitra continua a fare "ininterrottamente" «qua qua». Se smettevo anche solo per mezzo minuto il mio verso melodioso, il collo degli anatroccoli cominciava ad allungarsi, il che corrisponde esattamente all'allungarsi del viso di un bambino, e se io non ricominciavo subito essi scoppiavano in un pianto violento. A quanto pare, dunque, appena io tacevo, essi credevano che fossi morto o che non li amassi più, motivo più che sufficiente per piangere. A differenza delle piccole oche, gli anatroccoli selvatici erano dunque pieni di pretese e assai faticosi da allevare. Provatevi un po' a immaginare due ore di passeggiata con quei piccoli, sempre accucciato per terra e con quell'ininterrotto «qua qua qua»...Per amore della scienza mi sottoposi per ore e ore a questo supplizio. Dunque, quella domenica di Pentecoste io avanzavo tutto accucciato alla testa dei miei anatroccoli appena nati sopra un bel prato verde del nostro giardino, ed ero molto compiaciuto dei piccoli che ubbidienti e precisi seguivano trotterellando il mio «qua qua». A un certo momento alzai gli occhi e vidi una fila di volti allibiti affacciati sopra la siepe del giardino: un'intera comitiva di turisti mi guardava stupefatta. E non avevano tutti i torti, dato che vedevano un grosso signore con tanto di barba strisciare accoccolato per il prato tracciando degli otto, continuando a guardarsi indietro e facendo ininterrottamente «qua qua qua»... ma gli anatroccoli, i soli che avrebbero potuto chiarire tutto il mistero, quelli, purtroppo, non li potevano vedere gli sbalorditi osservatori, perché erano nascosti dall'alta erba primaverile!

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