Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

domenica 27 aprile 2014

Il Gianni




"Il Gianni" di Simona Busto (Storia vera di Filippo T., da "Confidenze tra amiche", numero 17, 2014)


Era sempre lì: sul corso o sul lungolago, seduto vicino all’ingresso dei bar più frequentati, un cappello posato accanto e due cani accoccolati vicino ai piedi.
Io però non ci avevo mai fatto molto caso, benché passassi davanti a lui almeno due volte al giorno, per andare e tornare dal locale dove pranzavo. Si finisce per far l’abitudine alle persone come agli oggetti. A pensarci è triste. La fretta e la distrazione ti fanno perdere mille sfumature di bellezza ad ogni istante.
Quel giorno stavo tornando all’ambulatorio veterinario un po’ prima del solito. Ero reduce da una lieve influenza e riuscivo a mangiare molto poco.
Guardai l’orologio: avevo tempo. Allora decisi di concedermi qualche minuto per osservare i cigni che nuotavano placidi a pelo d’acqua. Era bello poter fare tutto con calma. Il lago aveva un odore particolare nelle giornate di sole.
Mi appoggiai al parapetto color piombo e mi concessi un sigaretta. Ne fumavo un paio al giorno, pur sapendo che la mia salute non poteva certo trarne giovamento. Era il solo vizio che mi fosse rimasto. Da quando avevo rischiato l’infarto avevo rinunciato al vino e a tutti i cibi grassi. Per anni mi ero attenuto a queste regole ferree. La sola eccezione erano le mie due sigarette quotidiane.
Fu allora che l’uomo mi si avvicinò.
«Avrei bisogno di un favore,» mi disse con timidezza.
Credetti che volesse chiedermi soldi o una sigaretta, invece mi porse i guinzagli. «Devo entrare a comprarmi qualcosa da mangiare. Di solito li lego fuori, ma oggi vedo tante facce che non mi piacciono. Non mi fido.»
Colto alla sprovvista, presi il guinzaglio dei due cani quasi in automatico.
Lui entrò nel bar del molo e ne uscì in pochissimi minuti, stringendo un panino.
«Grazie,» mi disse, contento, «Sa, in genere non li lascio a nessuno, ma so che lei è un veterinario, quindi senz’altro vuole bene agli animali.»
Riprese i guinzagli e si sedette su una panchina, assaporando il panino con gusto. Di tanto in tanto ne gettava un boccone ai due cagnolini.
Mi ritrovai mio malgrado a osservarlo. Era piccolo, robusto, e aveva grandi borse sotto gli occhi. Non aveva l’aspetto che hanno di solito i senzatetto dediti ad alzare troppo il gomito. Il viso aveva una colorito sano, anche se bruciato da molti soli. Somigliava in maniera impressionante a un attore comico, anche se in lui c’era ben poco di divertente. Aveva uno sguardo serio, sorrideva solo quando guardava i suoi cani. Aveva steso una coperta per farli riposare più comodi e riempito la ciotola di acqua fresca presa alla fontanella.
Pensai ai miei numerosi clienti e notai che nello sguardo di ben pochi tra loro avevo letto un amore così puro.
Quel giorno tornai malvolentieri allo studio. Sarei rimasto ore a contemplare quell’uomo e i suoi occhi.
Chiesi notizie su di lui a uno dei miei colleghi che avevano sempre vissuto in città.
«Ah!» esclamò appena ebbe sentito la descrizione, «Certo, è il Gianni! Un’istituzione da queste parti. Non si sa da dove arrivi, ma è qui da almeno dieci anni. Tratta i cani come figli. Non se ne separa mai. Tutti gli vogliono bene.»
Il giorno seguente cercai il Gianni. Era sul corso, vicino alla gelateria. Aveva pensato di approfittare della giornata tiepida per raccogliere qualche soldo dai golosi.
Gli sorrisi mentre passavo e lui mi salutò con un vigoroso «Buongiorno Dottore.»
Mi fermai e svuotai nel suo cappello le monete del resto. Lui mi guardò coi suoi occhi franchi, che non conoscevano timore. «Grazie Dottore.»
Me ne andai sentendomi meglio. La sua voce mi dava una strana sensazione di tranquillità.
Era bello lasciargli qualcosa. Cercavo di farlo ogni giorno. Quando mi capitava di non vederlo, il mio umore volgeva al nero per il resto della giornata.
“Il” Gianni per me era diventato una sorta di portafortuna.
In tanti anni di vita al nord non avevo mai ceduto alla tentazione di mettere l’articolo davanti ai nomi propri, ma con “Il” Gianni mi pareva quasi doveroso. Era un modo di distinguerlo dal resto del mondo: c’erano tanti altri Gianni, ma lui era  unico e insostituibile. Il suo sguardo burbero sotto le sopracciglia folte e il suo rispettosissimo “grazie Dottore” erano impagabili.
Dopo qualche settimana azzardai una carezza a uno dei cani. Lo feci spiando la sua reazione. Non ero sicuro che apprezzasse un gesto di quel tipo. Quando vidi che il volto del Gianni era disteso, mi rilassai e accarezzai meglio la cagnolina.
«Sono molto buoni, Gianni. Sei fortunato.»
«Sì, dottore,» e nel parlare gli si illuminarono gli occhi, «non potevo trovare cani più buoni e belli. Sono l’uomo più fortunato del mondo.»
Guardai i suoi vestiti sporchi e consunti, e il cuore mi s’inondò di calore. Lui era grato alla vita. Sentii di aver imparato una grande lezione.
Gli lasciai qualcosa in più rispetto al solito quel giorno. Meritava qualche euro per poter dar da mangiare alle due creature che lo facevano sentire un uomo felice nonostante la vita si fosse accanita su di lui fino a ridurlo a mendicare.
Me ne andai sentendomi un po’ più piccolo, sotto il fardello dei miei miseri problemi di uomo qualunque.
Il saluto al Gianni e la grattatina ai cani divennero un rito abituale. Ogni tanto mi raccontava qualcosa, non di sé, ma delle sue bestiole. Sembrava che qualsiasi altro argomento di conversazione gli sembrasse inadeguato. I cani erano la sola cosa di cui valesse la pena parlare, secondo il mio amico dalle scarpe rotte.
Scoprii così che i suoi cuccioli si chiamavano Milla e Diego.
Milla era un po’ più piccina, rossiccia di pelo e ormai vecchiotta, come testimoniato dai numerosi peli bianchi sul musetto da volpina. Aveva anche l’aria un po’ più stanca. Era affettuosa e docile, adorava farsi accarezzare e s’inarcava come un gatto quando una mano gentile si allungava su di lei.
Diego era nero, poteva pesare poco più di dieci chili, abbastanza indipendente, ma attento e protettivo.
Milla era capitata tra le sue mani in una notte di febbraio di parecchi anni prima. Non era una cucciola, ma una piccola cagnolina di almeno quattro o cinque anni. Qualcuno l’aveva lasciata in una gabbietta, vicino ai bidoni della spazzatura. Il Gianni passando l’aveva sentita piangere. Scostati dei cartoni l’aveva vista lì, infreddolita e spaventata. Gli occhi terrorizzati chiedevano dove fosse finita la sua cesta calda in cucina. L’uomo non aveva saputo risponderle, in compenso l’aveva infilata subito sotto al suo vecchio cappotto pieno di buchi. Lì Milla si era accoccolata, cercando il tepore di quel corpo goffo ma generoso. Le mani gentili del mendicante erano pian piano riuscite a restituirle la serenità. La piccola aveva passato notti intere a piangere, per mesi. Col buio sembrava tornarle in mente la famiglia che non aveva più. Chissà, forse pensava a un bimbo a cui era particolarmente legata e che un giorno era tornato a casa felice, era andato di corsa a cercare la sua cagnolina, ma aveva trovato solo una cesta vuota buttata in un angolo senza rispetto. Probabilmente il bambino aveva pianto a lungo, ma i genitori lo avevano sgridato: «Non ci si deve affezionare agli animali. Te lo avevamo detto.» Dopo qualche tempo Milla si era finalmente tranquillizzata e aveva iniziato ad accovacciarsi placida contro il fianco del suo nuovo amico, senza più lamentarsi. Eppure anche ora il Gianni si chiedeva se Milla ogni tanto rimpiangesse la sua vecchia comoda vita con un tetto sopra la testa. Ma poi la piccola gli leccava una mano, guardandolo con i suoi occhi colmi di adorazione, e i dubbi svanivano nella testa dell’uomo. Milla con lui era molto felice, a lei non importava avere il riscaldamento e un letto comodo.
Diego invece non aveva mai conosciuto un letto né un tetto. Da dove arrivasse esattamente non era dato sapere. Il Gianni lo aveva trovato nelle mani di un altro senzatetto in un’afosa giornata di luglio, magro e sfinito dalla sete. Non aveva più di un mese. Era subito andato ad affrontare l’uomo, ma quello lo aveva allegramente mandato a quel paese. Gli aveva detto che, anche se fosse morto, ne avrebbe trovato un altro per impietosire la gente. Per la prima volta nella sua vita il Gianni allora aveva minacciato qualcuno col bastone. Si era fatto consegnare il cucciolo e gli aveva intimato di non farsi vedere con un altro cagnolino. Da quel giorno si era occupato anche di Diego: lo aveva nutrito col biberon, lo aveva curato, gli aveva dato gli antibiotici e il vermifugo. Diego aveva mostrato subito un caratterino deciso, anche se docile. Era diventato il protettore del Gianni e della piccola Milla. Quando qualcuno alzava la voce con uno dei due, lui ringhiava, drizzando il pelo sulla schiena. Non era carino quanto Milla, ma aveva una luce negli occhi che gli attirava le simpatie delle persone. Il suo posto preferito era accanto alle gambe del Gianni, il musetto appoggiato al suo piede.
Queste erano le storie che il Gianni mi raccontava, mentre stavamo seduti in riva al lago. Pazienza se magari mi ripeteva la stessa dieci volte. Era un uomo di poche parole, quindi ad ogni racconto aggiungeva qualche nuovo particolare. Ascoltarlo era come comporre un puzzle, bellissimo e variopinto.
Al Gianni e ai suoi cani piacevano i mercoledì. Il mercoledì era giorno di mercato. Era bello vedere tanta gente tutta insieme muoversi tranquilla sul lungolago. E poi era una giornata in cui Milla e Diego potevano incontrare tanti amici. Le persone amavano portare i propri cani al mercato. Nessun divieto per gli amici a quattro zampe lì.
E poi al mercoledì le persone tendevano a essere più generose e spesso il Gianni riusciva a mangiare qualcosa in più del solito. Appena aveva raggranellato spiccioli a sufficienza, andava nella zona dove c’erano i banchi di alimentari, seguito da Milla e Diego. Carne trita per i cagnolini, un panino al formaggio per lui.
Non c’era nulla di meglio che sedersi su una panchina e ammirare il lago mangiando il pane fresco, un occhio ai cani che divoravano diligentemente ogni briciola di carne.
Spesso al mercoledì rinunciavo alla mia dieta per andare a fargli compagnia.
Mi piaceva star lì ad ascoltarlo, gettando le briciole ai cigni. Mi sentivo in pace col mondo, lontano dallo stress della mia vita di tutti i giorni.
Lo sciabordio delle onde ci faceva compagnia e riempiva i lunghi silenzi tra una breve frase e l’altra.
Eravamo due grossi orsi feriti dalla vita, forse per questo mi piaceva tanto la sua compagnia.
Quando la primavera scaldò l’aria sulla città e le zanzare iniziarono a diventare fastidiose, feci un salto in farmacia. Fu così che mi presentai dal Gianni con un pacchettino. Gli mostrai come mettere le pipette di antiparassitario in mezzo alle scapole dei due cagnolini e promisi che di lì a un mese gli avrei portato anche qualcosa contro la filaria. Gli spiegai perché era importante fare quello che dicevo e quali sarebbero potute essere le conseguenze se non avesse seguito le mie indicazioni. Mi ascoltò con attenzione e serietà. I cani venivano prima di tutto per lui, mai avrebbe rischiato di metterli in pericolo.
Arrivato in clinica, mi segnai sull’agenda la data dell’antiparassitario, sarei stato io il suo calendario. Da lì a un mese scoprii che non ce n’era bisogno: metteva le pipette e dava la pastiglia con zelo e precisione. «Faccio tutto come dice lei, dottore. Voglio che la Milla e il Diego stiano sempre bene, ci mancherebbe. Che farei io senza di loro?» e nel dirlo aveva gli occhi lucidi.
Poi anche l’estate passò. E fu a inizio novembre che me lo trovai nella clinica. Era seduto in un angolo, con Milla in braccio, e, cercando di dare meno fastidio possibile, aspettava il suo turno.
Mi avvicinai. Lui e Diego mi guardarono con identici occhi disperati. «Dottore, me la salvi, la prego. È da ieri sera che è così.»
Guardai la cagnolina, i suoi occhi sofferenti e spaventati. Le accarezzai la testa, ma lei non reagì, non si mosse. «Ci penso io, Gianni.» La presi delicatamente tra le braccia e la portai nell’ambulatorio, sotto gli occhi pieni di apprensione del Gianni e di Diego. Il cagnolino non si oppose, istintivamente capiva che la stavo portando via per aiutarla. Se qualcuno si fosse azzardato a toccarla in altre circostanze, lui sarebbe scattato come una molla.
Una signora fece il gesto di richiamarmi, probabilmente per dirmi che toccava prima a lei. Le scoccai un’occhiataccia che la fece desistere. Chiesi a uno dei colleghi di sostituirmi coi miei pazienti finché non avessi finito con Milla.
Il Gianni e Diego rimasero lì, a testa bassa, silenziosi e quasi invisibili, per ore, finché non tornai da loro. Vedendomi arrivare, l’uomo alzò gli occhi in cui scintillava una timida speranza, che si spense subito vedendo il mio volto serio.
«Ha qualcosa che le blocca l’intestino, Gianni. Dovrei operarla subito. Gli esami vanno abbastanza bene, ma è davvero una cagnolina molto vecchia. Non posso garantirti che ce la farà.» Feci una pausa, osservando quel viso che era diventato una maschera di dolore, poi proseguii: «Devi dirmi tu se vuoi tentare l’operazione oppure preferisci che l’addormentiamo subito. Non ci sono molte speranze.»
Lui si guardò le mani sporche, osservò il muso triste di Diego, poi volse gli occhi a me. «Ci provi, Dottore. Cerchi di salvarmela.»
Gli posai una mano sulla spalla, poi tornai in ambulatorio e feci preparare la sala operatoria. Provai la stessa ansia che sentivo ogni volta che dovevo intervenire su uno dei miei cani. Sapevo che se fosse morta, avrei dato un grosso dolore a quell’ometto dal cuore grande.
L’intervento miracolosamente andò bene. Lo dissi al Gianni, specificando che solo nei giorni seguenti avremmo saputo se si sarebbe salvata. Due grandi lacrime gli solcarono il volto grinzoso, solo due, su quel viso pieno di dignità.
Tenni Milla con me ancora per tre settimane. Lui veniva ogni giorno alla clinica per sapere come stava e per guardarla. Lei pareva rianimarsi ogni volta che lo vedeva.
Quando fu il momento di restituirgliela, restai incantato dall’espressione di assoluta felicità che aveva assunto il suo viso. Le rimise lo sporco cappottino che aveva all’arrivo e si preparò ad andarsene. Ma prima si mise una mano in tasca e ne trasse una banconota da cento euro tutta stropicciata, che mi porse.
Ero sorpreso. Probabilmente non mangiava da settimane per racimolare quella somma. Mi schermii, e aprii la bocca per protestare. Ma lui mi cacciò i soldi nella tasca del camice. «Dottore,» mi disse, «per Milla e Diego faccio tutto quello che si deve fare. Io posso pure morire, ma loro non lo meritano.»
Mi diede un’impacciata stretta di mano e se ne andò, la sua Milla stretta sul cuore e il piccolo Diego che gli trotterellava felice accanto.

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