Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

sabato 31 maggio 2014

Mayfair e il mistero del lago

A Bambù.
Mia piccola, indimenticabile,
coraggiosissima Yorkie.
Prologo
8 novembre 1942, Klosters
Il ragazzo era molto alto e lo sembrò ancora di più, allampanato com’era, a Mullausen che lo vide fermo sul marciapiede della piccola stazione di montagna, la valigia di cuoio penzoloni dal braccio destro.
È proprio lui, pensò Mullausen avvicinandolo.
Corrispondeva perfettamente alla fotografia che il padre gli aveva spedito da Milano: il ciuffo castano spiovente da un lato del viso lungo, gli occhi profondi, le labbra sottili come un graffio. Un viso, considerò infine, poco adatto a un sedicenne.
«Sono Mullausen», disse intercettandone gli occhi cattivi.
«Io sono...»
«So chi sei», l’uomo lo interruppe subito, «ma tu devi dimenticarlo. Da oggi ti chiami Kurt, Kurt Mullausen. E che non ti sfugga mai nemmeno una parola in italiano.» Il ragazzo non rispose. Si avviarono fianco a fianco, muti, verso l’uscita della stazioncina, pensando tutt’e due che avrebbero dovuto, per forza di cose, frequentarsi per molto tempo senza essersi per nulla simpatici. Anzi.
1. L’incontro
20 dicembre 2000, Milano, aeroporto di Linate, ore 18.
Carlo non tentava nemmeno più di nasconderla quella macchia di unto sul vecchio loden verde. Le mani gelate strette a pugno nelle tasche, il volto semicoperto dalla sciarpa di lana blu notte, i capelli arruffati colore della cenere, gli occhi arrossati, fissi, dall’alto del suo metro e novanta abbondante, sulla folla formicolante di gente senza nome in partenza e in arrivo chissà da dove.
«Che ci faccio qui?» La solita domanda, come un tarlo dentro il cervello. Da quanto tempo non sentiva il brivido della più stupida emozione?
Lui non lo sapeva, ma avrebbe potuto immaginarlo: quella stessa mattina, Giuseppe Lini, capocronista di uno dei quotidiani più importanti d’Italia, era entrato in redazione e, constatando per l’ennesima volta il lindore e la vuotezza della scrivania del suo inviato di punta, per l’ennesima volta si era invelenito. Inutile sarebbe stato chiedere in segreteria di redazione dove si trovasse Carlo Tonolli. Di certo, stava sognando beatamente nel letto della sua strana, disordinata mansarda di via Appiani, sfruttando gli antichi vantaggi di un contratto d’inviato speciale.
Sprofondato nella poltroncina di quella maledetta scrivania, Lini si prese la testa fra le mani. Erano amici, lui e Carlo. Si stimavano davvero. Lini aveva salvato Tonolli anche dall’ultimo siluramento da un magazine, dopo l’immancabile querela. Aveva convinto il suo direttore che Carlo era ancora quel giornalista d’assalto che tutti ricordavano in prima linea sui fronti di guerra. Instancabile. Tenace. Spiritoso. Dissacrante e mordace. Le sue interviste venivano richieste dalle più importanti testate del mondo.
E Lini ci credeva sul serio, pur sapendo che, con l’assunzione di Carlo, si sarebbe tirato addosso una vera rogna, una tassa da pagare puntualmente e sempre in prima persona. Carlo era come un cavallo da corsa azzoppato troppo presto. Deluso dalle gabbie politiche del lavoro di giornalista, cinico per scelta, solitario per indole, assolutamente consapevole di reprimere le sue capacità per non essere mai al servizio di compromessi, anche banali.
«Uno stronzo presuntuoso, insomma», concluse Lini con rabbia. E con la stessa rabbia, ringhiando, l’aveva scaraventato giù dal letto, attraverso il filo del telefono: «Se non ti fa schifo, ci sarebbe quell’intervista all’assessore dei trasporti fissata già da una settimana.»
«La faccenda mi esalta, soprattutto sotto Natale.» Tonolli fischiò come dietro le gambe di una bella donna. Lini chiuse la conversazione telegraficamente e definitivamente: «Trovati a Linate alle 18. L’aereo dell’assessore arriva alle 19 da Roma. L’incontro avverrà durante il tragitto in macchina fino all’Hotel Manin perché il tizio ha poco tempo. Il pezzo dovrà essere sulla mia scrivania domattina alle 9 esatte.»
Il cartellone elettronico degli orari segnalò un ritardo di mezz’ora per l’aereo dell’assessore. Carlo adocchiò l’unico posto d’attesa libero di fianco a un capiente bidone della spazzatura. Si sedette, accese un mezzo toscano e aprì a caso il giornale con l’intenzione di leggere le notizie di secondo piano. Un tempo questo lavoro gli dava spunti e idee per pezzi di costume o inchieste insolite. Ora ci si applicava meccanicamente, come fosse un’abitudine quotidiana sterile, un esercizio didattico fine a se stesso, senza stimoli. E non sapeva dire se fosse così semplicemente perché tutto era già stato scritto e riscritto o se in effetti il difetto era dentro di lui, nella sua irrisolvibile demotivazione.
Mentre cercava le pagine degli esteri, fu distratto da una bionda patinata e leopardata con beauty-case di finto cocco che lo sfiorò maliarda. Pensò che anche le donne lo annoiavano. Ci usciva una volta o due e poi non sapeva più cosa dire. Gli parevano tutte uguali, tutte alla ricerca della solita conclusione con fiori d’arancio e Ave Maria di Schubert, con conseguenti casa-seconda casa-tv-amici con barca-fine settimana in montagna-figli da sfamare e crescere come larve, nell’alveare della metropoli. A soli quarantacinque anni il quadro gli sembrava concluso e conclusivo.
Il formicaio di persone andava e veniva rumoreggiando. Ributtò l’occhio al giornale.
“Incredibile furto al Louvre del disegno autografo di Benvenuto Cellini che raffigura una Giunone. Si tratta di uno studio del 1542 per una statua mai eseguita dall’artista italiano destinata al palazzo di Fontainebleau. Vista la scarsità di opere attribuibili al Cellini, il disegno, pur di grossolana fattura, è considerato di grande valore...”.
Ancora una volta fu interrotto. Questa volta da un bimbetto fermo davanti a lui che volutamente gli pestò un piede e contemporaneamente gli mostrò la lingua. Con un sorriso larghissimo lui fece altrettanto: schiacciò quel piedino come fosse il suo mezzo toscano e fece spuntare la lingua con una smorfia. Il bimbo urlò, stizzito e capriccioso, più per l’orgoglio che per il dolore, finché la grassa madre, ignara di tutto, gli mollò un ceffone trascinandoselo dietro al carrello carico di bagagli. Carlo rise. Rise con gusto, felice di ridere, finalmente. Gli piaceva ridere, gli piacevano le risate spontanee anche negli altri. Pensò che da troppo tempo non rideva così. Ripiegò il giornale e rise forte, divertito quasi alle lacrime, curvandosi su se stesso verso il bidone della spazzatura. E fu per questo che avvertì quel flebile verso, come un pianto disperato, finale. «Hii...iiii...»
Il lamento di un piccolo essere, certamente. Un fremito quasi strozzato, d’agonia, che piano piano si stava spegnendo. Un verso senza forze né speranza, delicato come un battito d’ala di farfalla. Si accorse di essere quasi del tutto appoggiato al bidone e, mentre una voce dentro di lui gli intimava di non farlo, come un automa si alzò e iniziò forsennatamente a spostare carte, vecchi giornali e bicchieri di plastica sporchi. Il contenitore apparve quasi sul fondo. Era di cartone rigido, poco più grande di una scatola da scarpe, con alcuni fori e scritte d’importazione in inglese. I sigilli erano andati a farsi benedire e quindi l’involucro si aprì solo toccandolo. Semiavvolto da uno straccetto sporco, gli apparve un piccolissimo cucciolo di cane terrorizzato. Non poteva muoversi, le zampe posteriori visibilmente bloccate, e tremava dal freddo. Il cane fissò Carlo dentro agli occhi, disperato. L’uomo, stupito, avvertì chiaramente all’interno del suo torace la presenza di un cuore, del battito di un cuore, e guardò a sua volta quel cucciolo dentro agli occhi. Avvolse la scatola nella sciarpa e volò fuori dall’aeroporto.







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