Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

mercoledì 18 giugno 2014

Mayfair e il mistero del lago

-ottava puntata-


Il silenzio piombò nell’oscurità scandito dal respiro pesante di Mayfair, finalmente rapita dal sonno più profondo, rotto a tratti da un flebile gemito. Carlo fumava nel buio, in attesa. Pensò di aver giocato troppo forte. E poi perché? Che gliene importava, a quarantacinque anni, di improvvisarsi James Bond? Se non avesse dato ascolto ai latrati di Mayfair non si sarebbe trovato in quella situazione. Ma ormai c’era dentro fino al collo, anche per il coinvolgimento con Viani, forse l’unico lato della faccenda che lo divertiva. Cosa avrebbe dovuto fare ora? In fondo non conosceva il suo avversario. Poteva essere un professionista, un killer. Si diede del cretino. Spense il mozzicone di toscano e ne riaccese un altro. Ripercorse ogni attimo della giornata precedente, ristudiò le espressioni delle facce di ogni ospite, per quanto fosse in grado di ricordare. Che interesse poteva spingere chiunque di loro a uccidere una nullità come il Valenti? Troppo facile e stupido pensare all’orgoglio ferito di un vecchio cornuto, per di più gravemente malato. Ricordava l’immagine del giovane vestito da ammiraglio correre nel parco verso il gazebo, ma non riusciva a metterne a fuoco il volto. Eppure, ne era sicuro, l’aveva veduto, ma la sua mente, non potendo in quel momento prevedere l’immediato tragico futuro, non aveva registrato quel dato che ora gli sarebbe stato prezioso. Sicuramente Valenti doveva incontrare qualcuno, la stessa persona che Kirstin aveva scorto dal divano pochi minuti prima della cena e della presunta sparizione di De Mei. Doveva essere qualcuno di estraneo alla festa ma noto alla ragazza, la cui visione l’aveva strabiliata, irrigidita, addirittura - a Carlo era sembrato così - spaventata a morte.
Ma chi, porcogiuda, chi?
Mayfair improvvisamente ringhiò in direzione della porta. Ci siamo, pensò Tonolli, prendendo nota furtivamente dell’ora lampeggiante dalla radiosveglia sul comodino. Le 3 e 20. Il lontano fruscìo, segnalato dall’animale prima e udito dall’uomo poi, si era fatto ormai prossimo all’uscio. Mayfair abbaiò. Carlo tremò.
Tic...Tic...Tic.... Quel leggero battito d’unghia contro il mogano della porta fu tranquillizzante.
«Chi è?»
«Apri. Sono Kirstin.»
Tentando di fare meno rumore possibile, Carlo rispostò il comò più in là di un metro. Aprì piano la porta, che tuttavia come sempre cigolò e, nella fioca luce dell’abat-jour, la ragazza scalza nel pigiama da uomo largo a righe bianche e azzurre gli apparve come una reinvenzione contemporanea di un quadro di La Tour. Senza trucco, i capelli in corte serpentine bionde guizzanti sul viso, gli occhi blu di ceramica.
Senza dire una parola Kirstin si distese sul letto e accese una sigaretta. Lui si stese al suo fianco.
«Non è stato mio marito.» Rotto dalla voce di Kirstin, il silenzio parve ancora più pesante.
«Lo so.» Carlo era in tensione.
Non aveva certo dimenticato la probabile prossima visita di Mister X.
«Paolo però, aveva paura di qualcosa - continuò la ragazza - ieri, dopo la partita di tennis, negli spogliatoi, mi disse che, a causa di un affare, oggi avrebbe dovuto tornare a Parigi. Mi disse anche che, se non fosse rientrato entro quarant’otto ore, avrei dovuto cercarlo all’Hotel Pont Royal, in St.Germain. Mi ha ripetuto il nome di quell’albergo almeno una decina di volte, sembrava molto nervoso. Infine, non ancora tranquillo, ha voluto che prendessi una bustina di fiammiferi dell’hotel, con indirizzo e numero di telefono.» Il silenzio ricadde fra i due per qualche minuto.
Lo spezzò questa volta Carlo, sottovoce: «Come sta De Mei?»
«Era agitato, agitatissimo. Così gli ho fatto un’iniezione di sonnifero per farlo riposare un po’. Gli voglio bene sai? Per me è il padre che non ho mai avuto. Non avrò pace finché tutta questa faccenda non sarà chiarita.» Kirstin spense la sigaretta, si alzò dal letto, gli mandò un bacio con la punta delle dita e sparì. Carlo risbarrò la porta con il comò e, soltanto in quel momento, si rese conto che Kirstin sembrava aver superato totalmente lo stupore panico manifestato prima della fatidica cena di mezzanotte, alla vista di qualcosa o qualcuno di misterioso nel parco. Sembrava aver proprio cancellato tutto dalla mente, a meno che non avesse deciso di andarsene di proposito, prima che i loro discorsi prendessero una piega pericolosa sfiorando quell’argomento.
Ora la radiosveglia lampeggiava le 4 e 45. Si avviò verso il bagno. Mayfair, che all’arrivo di Kirstin aveva strategicamente piazzato nella culla coi cuscini di passamaneria, non dormiva. Sdraiata sul fianco, guardava nel vuoto, apparentemente assente. Carlo l’accarezzò. Il cane allontanò il muso. Carlo riprovò. Il musetto si allontanò dalla sua mano ancora di più, il piccolo collo teso all’indietro, mentre gli occhi di carbone guardavano altrove, offesi. «Ma cos’hai? Ce l’hai con me? Ora ti riporto a letto. Non sarai per caso gelosa?» Mayfair, non convinta, lo guardò male. Rise da solo. Quel cane era davvero straordinario.
6. Parigi
Fu un uomo della pattuglia di sorveglianza notturna ad avvisare Carlo, circa un’ora dopo, alle 6 e 12 del mattino.
Li avevano trovati vicini. Lui, sulla sedia a rotelle, il capo abbandonato sul petto, il braccio destro allungato a terra con la mano affondata nei capelli biondi di lei. Lei arrotolata su se stessa come un gatto addormentato, nel pigiama a righe da uomo, il bel viso terreo, gli occhi di ceramica spenti per sempre.
Carlo osservò a lungo i due corpi: c’era qualcosa in quell’immagine che non gli tornava... ma certo! Sul palmo della mano destra di De Mei ora appariva chiaramente l’impronta del morso di Mayfair, denunciato dall’imprenditore a sua zia prima della cena di Capodanno. Ne restò sconcertato, non seppe davvero cosa pensare. Lesse brevemente l’ultimo messaggio di Kirstin vergato a penna sul notes di fianco al telefono, badando bene di non toccarlo per non confondere le impronte digitali.
“Non riesco ad accettare la morte di Paolo, unico grande amore della mia vita, e non posso permettere che mio marito finisca la sua vita in prigione per colpa mia. Ce ne andiamo insieme. Scusateci e pregate per noi”.
Sul tappeto persiano una siringa vuota giaceva a testimonianza della sinistra decisione.
Balle. La calligrafia di Kirstin, nervosa e infantile, sembrò a Carlo l’unica cosa di lei rimasta in vita per raccontare queste ultime, drammatiche balle.
Ma perché? Forse per la ragazza andarsene non significava necessariamente uccidersi. Forse la sua intenzione era semplicemente quella di fuggire con il vecchio marito malato. Niente di meglio, per Mister X che si ritrovava pure una letterina autografa per simulare i suicidi e... buonanotte, in questo modo il caso sarebbe stato chiuso definitivamente.
Era chiaro che gli uomini di guardia non si erano nemmeno accorti che la ragazza aveva lasciato la stanza nell’ora in cui erano stati insieme. Tutti infatti testimoniarono che quella porta non era mai stata aperta. Sì, certo. Quella porta no, ma la grande finestra del bagno sì. Carlo andò subito ad accertarsi che non fosse perfettamente chiusa dall’interno, e fu soddisfatto di se stesso e delle sue supposizioni nel constatare che era soltanto molto ben accostata. Quella prova, sconosciuta a tutti, per lui sarebbe stata fondamentale. La finestra era stata la via che aveva permesso a Kirstin di raggiungere la sua camera (forse proprio per testare la fattibilità del suo piano di fuga?), così come sarebbe stata quella intrapresa subito dopo con il marito per raggiungere il parco macchine in fondo al viale d’accesso alla villa.
Certamente per De Mei era impossibile calarsi dal primo piano usufruendo della struttura in ferro battuto che sosteneva il gelsomino. Ma, al contrario, per l’atletica Kirstin, sarebbe stato quasi uno scherzo, anche con il marito sulle spalle. Sul pavimento di piastrelle bianche del bagno, ai piedi del lavamani, Carlo adocchiò la bustina di fiammiferi dell’Hotel Pont Royal di Parigi di cui gli aveva parlato Kirstin. Fu velocissimo a farla sparire prima sotto la scarpa e poi nella tasca del cardigan, fingendo di allacciarsi le stringhe. Mentre rientrava nella camera da letto, decise di tacere l’episodio del suo incontro notturno con la donna, che gli era parsa tutt’altro che disperata da togliersi la vita.
Mister X doveva assolutamente credere che tutti avessero abboccato alla tesi del suicidio. Gli restava da chiarire se l’assassino fosse al corrente del suo incontro con Kirstin, ma ciò poteva essere irrilevante per ora. La guerra fra lui e Mister X era già stata dichiarata nel momento in cui Carlo aveva occultato la piccola chiave numero 7.
Mayfair stava rosicchiando con serio impegno il suo osso di caucciù. Non aveva alcuna intenzione di dormire, anche perché “sapeva” che, presto, avrebbe avuto di nuovo visite. E non sbagliava. Riconobbe l’ospite ancor prima di vederlo per quel particolare alone di onde d’ansia fibrillata, e prese a mugolare. Il visitatore socchiuse la porta della camera e sbirciò all’interno. Ancora quel piccolo cane storpio e ringhiante. L’avrebbe fatto fuori volentieri. Ma che andasse all’inferno, ringhiasse pure. Aveva poco tempo per recuperare la chiave. Valenti l’aveva nascosta in quella camera: non poteva avere mentito. Ma a questo punto era come cercare l’ago nel famoso pagliaio: aveva già rovistato dappertutto, all’infuori del bagno. Vi entrò e iniziò dal portasapone sul lavandino, e poi cercò nell’armadietto pensile di fianco alla specchiera antica. Nulla. Si domandò se Tonolli l’avesse davvero sostituita o se, effettivamente, la chiave in quella bustina nella sacca da tennis fosse proprio del giornalista. Dell’armadietto di un club sportivo per esempio. E se ne convinse proprio perché, contemporaneamente a quest’ultimo pensiero, aprì il mobile con la scarpiera e vide la chiave che cercava. Appesa a un piccolo chiodo fissato alla parete laterale di legno. Proprio lì, bellamente in mostra come per farsi trovare, brillava il nichel della “numero 7”.
Donna Lucia, i Viani, Gerti e l’Adele erano di nuovo riuniti nella “Sala del Camino”. Gli altri ospiti, per fortuna, se n’erano andati la sera prima. Quando, verso le 7 e 30, Carlo vi entrò nessuno osò aprire bocca. Nemmeno sua zia che si limitò a raggiungerlo per abbracciarlo in silenzio. Viani lo guardò interrogativamente e lui gli strizzò un occhio, segnale d’intesa fra i due che avrebbero dovuto parlarsi al più presto. La voce di Guidone lo raggiunse da dietro: «Il dottore desidera del caffé?» Tonolli annuì con il capo. Osservò arrivare Gerti, l’infermiera svizzera, rigida, senza una lacrima, ma visibilmente sconvolta. Sembrava in realtà molto più che sconvolta. Sembrava stesse per sentirsi male.
Carlo le si avvicinò. «Che farà ora?» La donna sussultò. «Mi perdoni, non volevo spaventarla.»
«Prego prego. Sono molto nervosa: quell’iniezione dovevo farla io al dottor De Mei, capisce? Ma la signora ha tanto insistito per restare da sola con lui... È un medicinale molto forte. Avrei almeno dovuto prepararla io, avrei dovuto impormi.» Faccia di Teschio parlava velocemente, quasi con se stessa.
Carlo la interruppe: «Non si faccia colpe inutili. Sarebbe successo comunque, anche in un altro modo.» Ma non era affatto convinto. Quella donna nascondeva qualcosa. Qualcosa, forse, che aveva visto o sentito. «La sua camera è comunicante con quella di De Mei. Ha per caso avvertito qualche rumore strano, qualche frase tra i due?»
«Ma come si permette? Lei crede che io origli alle porte? Non sono né una domestica né una comare.»
«No di certo.» Cercò di calmarla, sempre osservando attentamente ogni sua reazione. Gerti aveva cambiato completamente tono, non sembrava più la persona di poco prima. Anche negli occhi l’espressione atterrita precedente aveva lasciato posto a quella più banale di una normale offesa. La donna tacque e si allontanò da lui come se la sua vicinanza le desse il voltastomaco.
Lucia Guanzani aveva seguito tutto. «Lascia perdere quell’idiota. Piuttosto, cosa accadrà ora, secondo te? Il caso verrà chiuso?»
«Certamente. Tornano tutti i conti, no?»
«Be’... sì.» La vecchia era attentissima, ma continuava a non capire.
«Alla polizia tornano tutti i conti.»
Sua zia insistette: «Perché, a te no?»
«Perché, a lei no, Tonolli?» Il tono secco del commissario Ghezzi, del cui ingresso nella sala non s’era accorto affatto, lo fucilò. «Forse concorda con l’ignoto autore del corsivo che appare oggi sulla prima pagina del nostro quotidiano locale?» Lo sguardo severo di Ghezzi allacciò Tonolli e Viani.
Carlo non rispose, allora Ghezzi continuò: «Sì, sono venuto a dirvi che la polizia chiude il caso. Sulla siringa si rilevano le impronte della signora De Mei, la calligrafia della lettera è sicuramente autografa e non abbiamo null’altro che ci possa far pensare che la vicenda non sia andata così. Se volete continuare a giocare trovate qualcosa di più adatto, oppure provate a leggere meno libri gialli ma, soprattutto, lasciateci fare il nostro mestiere.» Salutò con freddezza e, accompagnato dalla padrona di casa, se ne andò al seguito dei suoi uomini, della squadra della Scientifica, del medico legale e, ovviamente, dei due cadaveri.
«Devo partire subito per Parigi.» Viani e Tonolli, finalmente soli, potevano parlare. «Ho già contattato un commissario che conosco e ho ottenuto la sua assistenza. Per il momento, o meglio finché gli sarà possibile, terrà la bocca chiusa con la polizia italiana perché mi deve un favore: anni fa, con una mia inchiesta su un caso di spaccio di droga, gli evitai una figuraccia. Ma questa è storia vecchia. Non ha importanza ora. Ho bisogno al più presto di soldi e di un posto sul wagon lit di domani notte.»
«Guardi che non siamo proprio dei pezzenti. Ci possiamo permettere anche l’aereo per le trasferte, magari non proprio la Businness Class, tuttavia il volo per Parigi è breve.»
«Voglio andare in treno.»
«Ma perché, scusi?»
«Per due motivi: prima di tutto devo sfruttare la notte per riposare. Sono tre giorni che non chiudo occhio. Poi voglio che Mayfair viaggi comoda.»
«Intende portarsela dietro?» Viani era sbalordito. Incredibile, pensò. Un vero controsenso, quell’uomo. Cinico, orso, misogino, introverso, diffidente ma irresistibilmente innamorato di quella cagnolina.
«Per forza, senza di me non ci sta. E poi ora è in pericolo: devo averla sempre sott’occhio e curarla costantemente.»
«Appunto. La lasci al professor Benni che sarà felice di tenerla in osservazione.»
«Non se ne parla neppure. Mayfair può stare solo con me.»
Viani scrollò il capo. «Entro le prime ore del pomeriggio avrà sia l’anticipo spese che il biglietto. A proposito, lo sa che il giornale sta andando a ruba? Il centralino impazza per il numero di telefonate di lettori che chiedono a quando il prossimo articolo firmato ‘Mayfair’. La tiratura non è bastata, abbiamo avuto il tutto esaurito, per la prima volta in vita nostra. Con la seconda puntata dovrò prevedere almeno il doppio di copie in edicola.»
«Complimenti direttore. E ora mi perdoni ma devo proprio scappare. Ho lasciato in camera un’esca per Mister X e voglio vedere se ha funzionato.»
«Stia attento, mi raccomando.»
Fu lieto di trovare Mayfair in buone condizioni.
Sempre sdraiata sul fianco, glielo dimostrò scodinzolando con foga e lambendogli la mano con la linguetta rosa. Carlo la sollevò delicatamente e la portò in bagno dove aveva steso un quotidiano sulle piastrelle per permetterle di fare pipì. Provò ad appoggiarla sul pavimento e, come per miracolo, la cagnetta si alzò sulle zampe e, pur lentissimamente e zoppicando, con grande fatica raggiunse la prima pagina del giornale e fece ciò che doveva fare. Poi, ritta sulle zampe aperte, lo guardò con gli occhi di carbone brillanti. Sembrava dirgli: «Ce la faccio.» Ce la stava facendo, pensò Carlo. Mayfair ce l’avrebbe fatta anche questa volta. Per lui. Esultante, commosso, piazzò il cane sul letto. «Stai lì ferma, capito? Va tutto bene, tu guarirai, ma non ti devi muovere troppo, ok?»
Mayfair sembrava capire ogni sua parola: si appoggiò al cuscino, allungò piano le zampe fasciate e si immobilizzò con gli occhi sempre fissi su di lui.
Carlo raccolse da terra il pullover e lo scrollò in aria con un gesto automatico. Mentre pensava che era giunto il momento di farlo lavare anche se ormai era destinato alla funzione di cuccia, gli caddero quasi sul capo l’osso di caucciù di Mayfair e un tampone di cotone idrofilo. Guardò con stupore quest’ultimo reperto e lo annusò. Venne subito inebriato da un effluvio di alcol. Mayfair abbaiò.
«Ho capito: se anche questo tu l’avessi rubato a Mister X che me ne dovrei fare?» Stava per gettarlo nel cestino quando il cane riabbaiò.
«E va bene. Ci terremo anche questa prova...» Suo malgrado non riusciva a non prendere per buone le indicazioni di quel cane: infilò il tampone in una busta di carta e l’appoggiò sul comò.
Assurdo. Sembrava quasi che Mayfair lo spingesse a proseguire l’insensata guerra con l’assassino. O forse, come diceva sua zia, era lui stesso ad attribuire al cane doti e intenzioni esagerate? No. Nonostante il suo innato pragmatismo, ormai ne era certo: Mayfair lo incitava mossa per mossa, e lui la ascoltava al di là della logica. Quello che non gli era chiaro era il perché.
Si decise, sapendo già la risposta, di verificare la validità dei suggerimenti di Mayfair andando a controllare se la sua esca aveva funzionato. Ebbene sì: sulla parete laterale del mobile antico in bagno il chiodino era vuoto. Dunque Mister X era davvero ritornato. Un brivido gli percorse la schiena. Dal piccolo frigobar recuperò una scatola vuota di sigari e controllò che l’impronta della “numero 7” impressa nella cera di candela, fosse nitida e asciutta. Soddisfatto, afferrò la valigia dall’armadio e ripose la scatola nella tasca interna, insieme con la busta del tampone e i fiammiferi di Kirstin nel cui interno notò un nome scritto a mano: Antoine.
«Allora, sei pronta Mayfair? Domani vedrai la Tour Eiffel.»



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