Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

venerdì 20 giugno 2014

Mayfair e il mistero del lago

-decima puntata-




5 gennaio 2001, Ginevra, ore 9 ,30.
Dall’enorme vetrata, specchio di tutta la città, un raggio insistente di sole invernale rimbalzava sui capelli argentei dell’uomo seduto alla scrivania.
«Bene, Friedrich, per un attimo ho stentato a riconoscerti nelle tue sembianze originali e... maschili. Hai fatto buon viaggio?»
«Sissignore, anche se liberarmi dagli ospiti di Bellagio non è stato tanto facile. Ho detto che sarei partita per l’America, a casa di un anziano parente ammalato che vive in Pennsylvania. Mi hanno addirittura accompagnato al treno per Milano. “Gerti, cara, facci avere tue notizie!”. Troppo passionali questi italiani.»
«E il giornalista?»
«Un curioso. Un innocuo curioso», lo affermò senza crederci del tutto, ma in fondo lui non era tenuto ad avere opinioni e il suo compito ora era terminato. Mancavano soltanto i trecento milioni pattuiti per il suo compenso che, tra breve, avrebbe intascato.
«È sparito con quel suo cagnetto storpio e ringhioso la sera prima della mia partenza per Ginevra.»
«Tutto ok, quindi. Tutto come previsto.» Gli occhi gelidi dell’uomo si fecero fessure «Dammi la chiave adesso.»
Il tedesco allungò la busta chiusa sul piano lucido della scrivania. Le mani abbronzate e fresche di manicure dell’uomo se ne appropriarono avidamente come artigli.
«Ottimo lavoro Friedrich, ottimo lavoro...» Con aria soddisfatta l’uomo aprì il cassetto alla sua destra e al posto del denaro tanto atteso da Friedrich, estrasse un revolver che puntò alla fronte del tedesco, proprio in mezzo agli occhi improvvisamente terrorizzati.
E schiacciò il grilletto.
Mancavano cinque minuti alle 12 quando Bamboo imboccò la stretta rue Montalambert scorgendo, cinquanta metri più avanti sulla sinistra, la facciata dell’Hotel Pont Royal. Vi entrò sentendosi un’incosciente e si avviò decisa alla reception.
Un americano grosso come l’Everest, con l’aria del petroliere texano, stava prenotando una suite. La ragazza studiò gli impiegati dietro al bancone. Erano soltanto due: un nero che stava parlando con l’ospite americano e una donna con i capelli rossi come il fuoco seduta al terminale di un computer, di spalle. Bamboo non ebbe il tempo di riflettere sul da farsi perché la voce del nero si alzò di colpo: «Sabine!» Al richiamo del suo nome, la rossa si girò, scorse Bamboo, si alzò, si avvicinò al banco e cortesemente le melodiò: «Desidera?»
Ecco fatto. Ci siamo. Adesso che faccio? Bamboo si sentiva di colpo indifesa.
«Mi scusi... dovrei parlare con Antoine.» Un disastro. Voce balbettante e aspetto dimesso. Assolutamente il contrario dell’atteggiamento stabilito con Carlo.
La cortesia di Sabine sparì subito lasciando il posto alla maleducazione della peggiore tradizione francese. «E allora? Lo sa che questo è orario di lavoro? Torni alle 13, durante l’intervallo.»
L’enorme americano che stava riponendo la mazzetta di traveler cheques nella tasca interna del montone, colse lo sguardo obliquo, deluso e irresistibile di Bamboo.
«È questo ciò che odio di più dei francesi: la villania. Sotto la facciata imperiale dell’hotel di lusso arde la brace della peggior spocchia. È come quando si innaffiano con dovizia con uno dei loro famosi profumi senza aver fatto il bagno. Si rassegni, mademoiselle. A suo sfavore lei ha anche il fatto di essere una bella donna.» L’americano parlava bene il francese, accentuando con voce cavernosa e aiutato dall’accento anglosassone il disgusto che gli provocava la faccenda.
Bamboo gli sorrise grata mentre la rossa schiumava.
Intervenne il nero, appena oliato da una lauta mancia: «Monsieur, ci perdoni. Oggi non è giornata per Sabine. Prego mademoiselle, si accomodi pure al bar. Antoine le offrirà uno dei suoi migliori coktail.»
Bamboo gioì. Era andata benissimo. Ora sapeva anche che Antoine faceva il barman. Raggiungendo il bar si volse a sorridere ancora all’americano che le rispose con una complice strizzatina d’occhio.
La piccola sala bordeaux era semivuota. Una coppia di mezza età parlottava in un angolo con aria mesta, a un tavolino al centro un biondo effeminato sorseggiava un analcolico alla frutta sfogliando il “Figaro Magazine” e semisdraiato in una poltrona Frau, un vecchio magro, incurvato, dall’aria aristocratica, pisolava con il viso appoggiato al pomolo d’argento del suo bastone.
Avvicinandosi al banco liberty, Bamboo si chiese chi fra di loro poteva essere il suo angelo custode in incognito. Carlo le aveva assicurato che non sarebbe mai stata sola.
Antoine, un giovane alto con i capelli lunghi e scuri trattenuti da un elastico, stava armeggiando a capo chino fra tazze e bicchieri nel lavello, e si accorse di Bamboo solo quando lei iniziò a parlare con voce sussurrata.
«Mi manda Valenti.» La ragazza aveva scelto la via più rapida ed evidentemente la più efficace, vista la reazione dell’uomo che s’irrigidì quasi fosse inchiodato al pavimento. Fissandola come una lepre braccata, il francese rispose con finta naturalezza e un tono troppo alto: «Alcolico mademoiselle?» Bamboo stette al gioco. «No grazie, alla frutta.»
L’ingresso della saletta drappeggiato di broccati si riempì della sagoma rassicurante dell’americano che entrò fumando un Avana di dimensioni adeguate alla sua taglia e, con un largo sorriso, occupò lo sgabello alla sinistra di Bamboo. Il timore della ragazza che l’uomo l’avesse seguita per cercare la sua compagnia svanì subito quando lo vide estrarre da una valigetta un incartamento infinito e iniziare a scartabellare e leggere.
«Un doppio bourbon, per piacere», tuonò il texano ad Antoine senza nemmeno guardarlo. Al contrario, Bamboo non perdeva una mossa del francese che in quel momento le stava allungando un calice color pervinca ornato da una buccia di lime caramellata, arricciata e ricadente attorno a una cattleya. Un vero capolavoro.
«Tovagliolino?» La voce di Antoine era supplichevole quasi quanto i suoi occhi.
Bamboo si servì dal piccolo contenitore d’argento alla sua destra, badando bene di prendere il primo della pignetta, leggermente scostato dagli altri, come lo sguardo di Antoine tacitamente le suggeriva. Sorseggiando il suo elaborato cocktail, Bamboo considerò che avrebbe dovuto comunque intrattenere una qualsiasi conversazione con Antoine, dal momento che l’americano era stato testimone alla reception della sua richiesta di vederlo.
«Si ricordi di dare sue notizie a zia Janette, allora. Sa, ai vecchi la lontananza fa male e paura... mi chiede sempre di lei, povera donna.»
Antoine colse l’occasione al volo: «Oh sì, lo so. Mi ha fatto da madre e mi rendo conto di essere un egoista. Non le scrivo mai. D’altra parte da Parigi il paese mi sembra così lontano. In città il tempo brucia le ore come minuti, i mesi come giorni. Io le mando sempre un po’ di soldi con vaglia postali, ma so bene che non è quello il suo problema. A proposito, posso approfittare di lei per mandare a zia Janette una letterina?»
«Ma certamente! Io ritorno a casa col treno di domattina e potrò consegnarla al più tardi nelle prime ore del pomeriggio. Sua zia ne sarà felice.»
Il francese scomparve nel retro dietro una porticina, giusto il tempo che servì a Bamboo per finire il suo drink e, quando ricomparve, teneva fra le dita una busta bianca.
«Avevo già messo il francobollo, come può vedere, ma poi mi sono sempre dimenticato di spedirla. E pensi che qui all’hotel sarebbe la cosa più facile del mondo!»
Bamboo fece sparire lettera e tovagliolino nella sua Hermès, appositamente preparata aperta. Richiuse velocemente la borsa, si alzò, allungò il braccio sul banco e strinse la mano pallida e sudata di Antoine con uno dei suoi sorrisi più disarmanti, agganciando anche lo sguardo dell’americano che si era spostato dalla pila dei fogli a lei.
«Grazie e arrivederci.»
«Grazie a lei, mademoiselle, e buon viaggio.»
La ragazza uscì con passo veloce e leggero, senza voltarsi, pensando che Antoine pareva terribilmente impaurito. Al punto di non poterlo nascondere. Guadagnò il marciapiede e si avviò decisa verso Boulevard St. Germain. Avrebbe raggiunto casa sua in quindici minuti, più o meno, e lì avrebbe atteso notizie di Carlo che ora, certamente, la stava osservando dalla vetrina di qualche negozio o dal tavolino di una brasserie. Non alzò mai lo sguardo se non quando, svoltando a destra sul boulevard, si sentì accarezzare dal sole freddo di quell’inverno incredibile e, concedendo un ennesimo sguardo a quella via che tanto amava, pensò che Parigi, una volta di più, sembrava abbracciarla. Si fermò soltanto qualche minuto per comprare un mazzo di pallide rose gialle, i suoi fiori preferiti che Philippe, il fioraio all’angolo della sua strada, avvolse in una pagina di quotidiano. Poi scappò su per le scale di casa. Ma non fece in tempo a entrare che il telefono si animò.
«È in ritardo. Ha fatto una passeggiata?», sotto l’ironia Carlo non riusciva a nascondere la sua rabbia.
«Ho comprato dei fiori perdendo poco più di tre minuti. Comunque buongiorno!»
«Bene bene. Buongiorno a lei! Qui c’è tutta la Sureté che veglia sulla sua incolumità, io che ho dei tempi da rispettare e la responsabilità del pasticcio in cui l’ho coinvolta, e lei che fa? Compra fiori. D’altra parte lei è una donna e da una donna non si può pretendere la logica.»
Bamboo lo interruppe: «La smetta o riattacco. Cosa vuole da me?»
«Lo sa bene cosa voglio da lei, per cui ora non dica assolutamente più nulla. Passo fra cinque minuti esatti a prenderla in taxi. E non mi faccia aspettare, per favore.»
Bamboo aveva le gote in fiamme. Se l’avesse avuto davanti gli avrebbe mollato uno schiaffo. Come aveva potuto pensare che quell’energumeno potesse essere l’uomo della sua vita?
Il taxi già l’attendeva sul passo carraio del suo stabile. «È un taxi o un elicottero questo? Aveva detto cinque minuti, mi sembra.» Non aveva la minima intenzione di guardarlo in faccia. Gli passò dal finestrino la lettera e il tovagliolino di carta e fece per andarsene. «Che fa? Torna dal fiorista? Su salga, abbiamo giusto il tempo di mangiarci un croque madame prima di andare da Damiens.» La voce di Carlo era cambiata, era tornata calda, ironica, profonda.
Bamboo lo guardò e si perse di nuovo nel grigio di quegli occhi.
Si fecero lasciare a “Les deux magots” dove Carlo avrebbe dovuto ricevere la telefonata di Viani. Si sedettero in un tavolino defilato e ordinarono subito i toasts a un grande, baffuto cameriere con gli elastici ferma-camicia sugli avambracci, al quale Carlo fece scivolare una banconota nella tasca del grembiule nero.
«J’attend une téléphonée de l’Italie...»
Bamboo si accorse solo in quel momento di Mayfair, che si affacciò sbadigliando fra un bottone e l’altro del loden di Carlo. Proprio in corrispondenza del cuore..., considerò.
«Mi dica tutto, coraggio.» Carlo la guardò, accarezzando lentamente il cane.
Bamboo fu precisissima, in ogni dettaglio, al punto che il giornalista preferì prendere appunti, soprattutto sulle descrizioni delle persone presenti al bar del Pont Royal.
Poi Carlo spianò sulle ginocchia sotto il tavolo il tovagliolino e la lettera che gli aveva dato Bamboo.
Sul primo appariva una scritta in stampatello: “NON PARLI QUI. VENGA ALLE 22.30 IN RUE DE CLERCY 12, 3° PIANO, DA LORRAINE”.
«Sa dov’è questa via?», domandò il giornalista.
«Nel quartiere cinese, verso la Porte d’Italie.»
Carlo passò a considerare la busta. Era indirizzata a Paolo Valenti, da recapitare a mano. Sul retro, dov’era evidente che fosse stata aperta, richiusa e incollata di nuovo, vi era scritto: “Da consegnare alla donna che chiederà di me. PV”.
«...infatti Valenti aveva pregato Kirstin di farsi viva con Antoine se gli fosse capitato qualcosa. Se ne deduce che il ragazzo non ha letto i giornali, non sa quindi che Valenti e Kirstin sono morti e, soprattutto non ha mai conosciuto Kirstin. Ma per fortunata coincidenza, lei, Bamboo, è una donna. Così Antoine non si è posto domande, le ha consegnato la lettera facendo fede all’appunto di Valenti sulla busta.»
Bamboo non fu affatto felice del fatto che Carlo ritenesse la sua femminilità una fortunata coincidenza solo ai fini del buon esito della ricerca del suo stupido assassino.
E in quel momento giurò a se stessa che, anche se avesse dovuto impiegare tutta la vita, avrebbe usato ogni arma possibile per conquistare quell’uomo.
«Mi sta ascoltando?» Come risposta Bamboo gli sfoderò uno dei suoi sorrisi più letali con il risultato, a lei per fortuna ignoto, che Carlo si convinse più che mai che quella mezza cinese era davvero una lunatica svanita.
La busta conteneva unicamente una ricevuta di pagamento della cassetta di sicurezza numero 7 del caveau della Banque Nationale Suisse di Ginevra.
«Et voilà, mademoiselle Bamboo, il mistero della chiave è risolto.» Carlo esultava.
«Ma quale chiave?»
Vero. Nemmeno a Bamboo lui aveva parlato di quella prova. Fu costretto a farlo ora, con la raccomandazione della massima segretezza.
«Capisce? Ora solamente noi possiamo usare la copia della “numero 7”. Mister X infatti non può usare l’originale perché non possiede la ricevuta! Con questo giochetto probabilmente Valenti intendeva da un lato tutelare la sua vita, dall’altro mettere in condizione Kirstin di arrivare a capo del mistero, nell’ipotesi pessimistica che non gli avessero dato il tempo di spiegarsi, come evidentemente è poi successo. Il perché lo capiremo soltanto quando apriremo quella benedetta cassetta di sicurezza. Ma cosa potrà mai contenere di così scottante? Il suo disegno del Cellini?»
«Mi sembra troppo semplice e, nello stesso tempo, illogico», rispose pensosa Bamboo. Arrivò il baffuto cameriere con i croques madame e il cordless per Carlo: «A vous monsieur. C’est monsieur Viani de Milan.»
«Buongiorno direttore. Come va?»
«Come va lei, Tonolli? Ha già potuto fare qualcosa?»
«Tutto, direi. Tutto quello che potevo fare a Parigi. Domani dovrò essere a Ginevra. La “numero 7” corrisponde infatti a una cassetta di sicurezza di una banca svizzera. Le spiegherò meglio quando avrò più tempo. Ha già visto mia zia?»
«Arrivo proprio ora dalla villa. Come da accordi, le ho spiegato a grandi linee il nostro programma. Mi è parsa molto divertita e mi ha consegnato il pacchetto arrivato là a nome suo, Tonolli. L’ho aperto e contiene un piccolo, vecchio album di fotografie di una Prima Comunione della famiglia De Mei. L’album è accompagnato da un biglietto scritto a mano, che ora le leggo: “Cara signora, le mando a nome del dottor Tonolli, come desidera, l’album che mi ha chiesto. Non le nego che la sua telefonata della scorsa notte mi ha molto agitata. Anche la sua voce mi è sembrata molto tesa. Ho capito che non poteva parlare liberamente così mi auguro che non sia successo nulla di grave. Qui a casa aspettiamo con ansia vostre notizie. Tornate presto. Pinin”. Questa Pinin risulta essere la governante di casa De Mei la quale, alla notizia del doppio suicidio dei padroni, ha avuto un collasso ed è stata ricoverata in ospedale.»
«Che significato può avere tutto questo?» Tonolli aveva il cervello in fumo.
«È ovvio», continuò Viani «che Kirstin volesse farle avere questo libretto perché contiene la prova dell’innocenza del marito, o comunque qualcosa che la potesse mettere sulla strada giusta per trovare l’assassino di Valenti e, ora possiamo dirlo, anche dei De Mei. Sarà molto difficile comunque decifrare queste foto, visto che sono accompagnate unicamente da una data, il 1936. La cosa tuttavia più curiosa è che sono tutte, proprio tutte, tagliate a metà.»
«Devo vedere questo album al più presto. Me lo deve fare avere a Ginevra domani stesso.»
«Farò il possibile, ma dovrò chiedere aiuto a sua zia. Purtroppo i conti del giornale non mi consentono ulteriori spese extra. Donna Guanzani potrebbe mandare Guidone con la Mercedes e magari un cambio di biancheria per lei.» Viani era imbarazzato.
«È triste fare lo Sherlock Holmes dei poveri.» Carlo si pentì del suo tono arrogante immaginando lo sguardo da cane bastonato del collega. Sospirando aggiunse: «Come va il giornale?»
«Come prima, cioè male. Mancano i pezzi di “Mayfair”. I lettori li richiedono a gran voce con lettere e telefonate quotidiane. A quando il prossimo? Ho bisogno di ossigeno.»
«Tenga presente che il secondo pezzo si rivelerà un’arma a doppio taglio perché riscatenerà la polizia italiana. Comunque, come lei ben sa, l’attesa accresce l’interesse. Il prossimo appuntamento sarà da Ginevra: si prepari a tirare almeno 20.000 copie in più e a trovarsi un buon avvocato.»
Si lasciarono stabilendo di risentirsi la sera stessa per programmare nei dettagli lo spostamento di Tonolli in Svizzera. Carlo chiuse il telefono e affrontò con decisione il suo toast ormai freddo. Lo finì in quattro bocconi accompagnati da un calice di Beaujeaulais, il suo rosso preferito.
Bamboo non fece domande sulla telefonata con Viani né Carlo fece alcun riferimento.
«Bene. Ci si prospetta una giornata tutt’altro che riposante. Vogliamo raggiungere Damiens? Che ne dice, Bamboo?»
Erano leggermente in anticipo sui tempi, così si concedettero due passi sul boulevard St. Germain. Il giornalista intravide una piccola aiuola e vi piazzò Mayfair.
Fu lui, per primo, a spezzare il silenzio fra loro: «Questa sera verrò anch’io da Antoine con lei.» Si accese un mezzo toscano e seguì con lo sguardo il cane che, avvolto nel suo maglioncino a collo alto di lana rossa, annusava nell’erba bassa.
«Mayfair la guarda sempre così?»
«Così come?»
«Negli occhi.» Bamboo era sempre più affascinata dal rapporto fra quei due, così impenetrabile dall’esterno.
«Sì, tutto il giorno. Non mi perde mai di vista.»
Allora la ragazza capì che la luce che si accendeva negli occhi grigi dell’uomo ogni volta che parlava di Mayfair era amore. E proprio per questo motivo Mayfair lo guardava sempre negli occhi. Era chiaro. Aspettava di veder comparire una volta di più quella luce d’amore, la stessa luce che nei suoi occhi di cane era sempre accesa.
Carlo si accucciò vicino alla cagnolina per sistemarle il bendaggio di una zampa.
«Cosa le è successo?»
«L’ho trovata in un bidone della spazzatura all’aeroporto di Linate, così, con le zampe spezzate.»
Mayfair gli grattò la punta di una Church’s per fargli capire di aver finito e di voler rientrare nel loden.
Carlo spiegò a Bamboo che la piccola si stancava ancora molto in fretta. I dolori non erano del tutto passati, anzi. A volte anche i suoi incoraggiamenti non bastavano a smuoverla dal torpore maligno che minava la sua difficile guarigione. Così lui doveva usare l’arma odiosa, ma in questo caso inevitabile, del ricatto. «Allora io me ne vado», le diceva allontanandosi, e lei si alzava faticosamente, terrorizzata dall’idea di perderlo, di non vederlo più.
E finalmente si muoveva.
Se la rimise sul petto e riprese in silenzio a camminare di fianco a Bamboo.

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