Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

giovedì 5 giugno 2014

Mayfair e il mistero del lago

-terza puntata-






21 dicembre 2000, Milano, ore 9
Michael J.Ryer, chimico farmaceutico e ricercatore, fatto insolito per la sua pressione congenitamente bassa, quel mattino si era svegliato di ottimo umore.
Ma un motivo c’era, e non da poco. Presto sarebbe tornato a casa, a Londra, nella sua tipica casetta di mattoni rossi. A quest’idea Michael sorrise. Dopo tre anni di isolamento in quell’algido bunker, pochi giorni prima aveva finalmente raggiunto la sua meta più ambita, per il bene dell’umanità, per la fortuna dell’azienda De Mei e, non da ultimo, per il suo futuro che ora gli appariva dorato e glorioso.
Si domandò dove fosse l’unico abito grigio che possedeva, quello delle grandi occasioni. Non poteva andare in jeans e T-shirt dal Grande Capo a dare la Grande Notizia e a chiedergli tanti tanti soldi!
Si ricordò d’aver spedito il completo in tintoria, dopo averlo indossato e macchiato alla cena di compleanno di un collega la settimana precedente. S’arrangiò con una camicia jeans, cravatta di lana, pantaloni di fustagno, cardigan, scarpe anfibie e montgomery. Poi si osservò nello specchio dell’armadio e si sentì perfettamente a suo agio. Alto, magrissimo, biondo, stempiato, tipicamente e orgogliosamente anglosassone. Con quegli occhi malinconici e distratti e i dentoni un po’ sporgenti da ragazzino, Michael avrebbe sempre dimostrato trent’anni. E invece ne aveva quasi cinquanta. Considerato un genio della ricerca farmacologica, sembrava il solo a non crederci. Ogni volta che scopriva o rielaborava nuovi farmaci era come fosse la prima volta. Richiesto dalle più grandi aziende del mondo, preferiva scegliere liberamente i suoi partners commerciali e la De Mei era una delle industrie che più amava perché vi aveva iniziato giovanissimo i suoi primi studi. Tutto ciò grazie al grande intuito del fondatore, Barnaba De Mei che l’aveva ingaggiato subito, fresco di laurea, attratto dalla sua tesi sulle nuove possibilità di ricerca senza uso di cavie. E alla De Mei Ryer aveva deciso di offrire la sua scoperta più importante. Proprio quella mattina nella rassegna stampa aveva trovato un ritaglio dal “Corriere della sera”:
“Drastica decisione del nuovo management delle aziende farmaceutiche De Mei: dall’inizio del prossimo anno circa trecento dipendenti saranno messi in cassa integrazione. Il Consiglio di Fabbrica minaccia scioperi immediati a singhiozzo”.
Sapeva che l’azienda era profondamente in crisi anche per le precarie condizioni di salute del presidente, e a questo punto era felice di poter contribuire a rialzarne le sorti e il prestigio con il suo nuovo farmaco che, certamente, avrebbe rivoluzionato il mercato.
Si erano sentiti proprio il giorno prima, lui e De Mei per fissare l’appuntamento di questa mattina, che entrambi attendevano con ansia. Per motivi di sicurezza e discrezione, De Mei era l’unica persona al corrente del tipo di prodotto che Ryer stava elaborando. Persino i dipendenti del laboratorio credevano che stesse perfezionando una nuova alternativa all’aspirina leggera. In più, non avendo avuto necessità né di assistenti né di cavie vive, era matematicamente impossibile che chiunque potesse spiare il suo lavoro. Era tutto lì, nella sua ventiquattr’ore, che si portava avanti e indietro ogni giorno. Ne fece scattare le sicure a combinazione e uscì di casa. Quando fu per strada, come sempre lottò con la sua distrazione per ricordare dove mai avesse posteggiato la BMW. Ma non fece in tempo a fare un passo che un tipo corpulento gli si buttò addosso urlando come un pazzo: «Aiuto! Quest’uomo sta male!» Nello stesso tempo, trascinandolo verso la portiera spalancata di una vecchia Volvo, gli torse inesorabilmente la testa verso la sua mano semichiusa a coppa. Ryer fece appena in tempo a vedere il formarsi di un capannello di gente pietosa. Poi, prima del buio totale, fu stordito dall’inequivocabile odore dell’etere.
2. Lucia Guanzani
30 dicembre 2000, Parigi, ore 12.
Una rara giornata di sole nell’inverno parigino. Il cielo della città sembrava smaltato come quello di un manifesto americano anni ’60. Paolo Valenti, caricando il baule della sua Alfa 156 davanti all’Hotel Pont Royal, in St. Germain des Prés, pensò che il polverone sollevato dal furto del Louvre non doveva essersi sopito, visto che la notizia appariva ancora sulle prime pagine dei quotidiani. S’immaginò i posti di blocco sull’autostrada e poi le code interminabili in dogana. «Voglio arrivare per tempo a Bellagio», si disse, assaporando con la mente il tenero corpo di Kirstin.
30 dicembre 2000, Milano, ore 13.
Mayfair si alzò traballando sulle quattro zampe, inaspettatamente. Il professor Benni esultò constatando una ripresa così rapida. Si complimentò con Carlo e gli raccomandò di lasciare libera la cagnolina di muoversi come e quando volesse, in modo che le fragili ossa si riabituassero al peso da sostenere e si rinsaldassero poco per volta, naturalmente. Rinnovò le fasciature strette, vista l’impossibilità di ingessare arti tanto minuti, e rimandò a dopo le feste di fine anno il verdetto finale.
«Pronto? Carlotto sei tu?» Carlo sorrise. Zia Lucia lo chiamava ancora con il vezzeggiativo inventato per lui da sua madre.
«Ciao principessa, come te la passi?»
Era felice di sentirla: la considerava una delle persone più affascinanti che avesse mai conosciuto.
«Sto bene, a parte i soliti guai dei Persiani. Chiarodiluna ha di nuovo la rinite, e quella cortigiana di Queen Mary partorirà gli eredi di Blue Diamond a metà gennaio. E tu tesoro, che fai? A Natale non ti sei fatto nemmeno vedere. Perché non vieni qui a passare la fine dell’anno? Sono in attesa di certi amici straordinari. Ma non ti voglio dire nulla in anticipo. Non dire di no, prendi quel rottame della tua macchinetta e parti subito.»
I misteri di zia Lucia: i suoi giochi preferiti. A settantotto anni suonati non riusciva ad abbandonare la malizia, la curiosità per tutto, l’irrefrenabile voglia di divertirsi. Il suo salotto era frequentato dalle persone più eterogenee, di ogni età e stile di vita, ma tutte con un denominatore comune: la determinazione a vivere, più o meno coscientemente, nel bene e nel male senza schemi preordinati.
«Mi piacerebbe, ma ho due problemi. Il primo è che sono stato licenziato, il secondo è che ora... be’ ora... vivo con un’amica.»
«Finalmente! Finalmente sei stato licenziato da quel giornalaccio e finalmente, Carlotto, hai un’amica. Ma dimmi - sai che con me puoi parlare di tutto - i due fatti sono legati? Chi è la fortunata? Forse qualcuna che hai soffiato a quel damerino del tuo direttore? E com’è? Carina? Simpatica? Giovane? Chic?» La curiosità trapelava da ogni foro del ricevitore assieme alla cascata di domande della donna.
«Acqua, acqua. Per ora ti posso dire che galeotto fu un assessore ai trasporti e che lei... sì, è piuttosto carina e molto sensibile, elegante anche se un po’ piccolina.»
«Che peccato, visto che tu sei tanto grosso, caro. Comunque è una ragione di più per vederci presto. Che tu voglia o no, devi presentarmi la tua venere tascabile dal momento che sono la tua unica parente in vita. Bionda o bruna?» Sua zia era davvero al limite. Carlo se la immaginava al di là del filo: gli occhi cerulei sbarrati, le dita in gioco fra le maglie della catenella reggiocchiali d’oro, e l’atteggiamento sornione tanto simile a quello dei suoi Persiani.
«È bruna focata... scusa mèchata», Carlo si salvò in corner con aria naturalissima.
«Oh caro, non vedo l’ora di conoscerla! A proposito come si chiama?»
«È una nobile inglese. Si chiama Mayfair.»

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