Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

mercoledì 18 giugno 2014

Mayfair e il mistero del lago

-nona puntata-




7. Bamboo Li
4 gennaio 2001, Parigi, 33 rue de St. Simon, ore 8,30.
La sua casa era una mansarda nel cuore di Parigi. L’aveva desiderata fin dall’età della ragione, da quando suo padre, rientrando a New York dai suoi frequenti viaggi in Europa, le mostrava le foto delle città dov’era stato. L’aveva sognata sfogliando con la mamma cinese le riviste d’arte e di arredamento francesi che arrivavano puntualmente nel loro loft casa-studio a Soho. E perfino Manhattan, che Bamboo adorava, sembrava perdere il suo smalto futurista al confronto dei ponti sulla Senna, dei balconi ricciuti, delle finestre sui tetti, ridenti dietro le tende di pizzo bianco, al confronto dei portoni biondi rifiniti di ottone e delle seggioline di paglia di Vienna dei bistrot.
«Un giorno vivrò là, sono sicura.» Se lo ripeteva spesso negli anni della scuola e del liceo, finché quella lunga attesa, come per incanto, si annullò una mattina di settembre (uno dei mesi più belli a Parigi!), nella segreteria della Sorbonne.
«Nome?»
«Bamboo Li Mac Neely.»
«Nazionalità?»
«Americana.»
L’anziana impiegata aveva sorriso al dolce sorriso mezzo orientale della ragazza, pensando di non aver mai veduto creatura più bella e delicata.
«A quale Facoltà intende iscriversi?»
«Storia dell’Arte.»
L’aveva detto. Era successo. Il cuore le scoppiava nel petto. Avrebbe frequentato l’Università dei suoi sogni nella città dei suoi sogni!
Erano già passati quindici anni da quel settembre, in un soffio. Oggi Bamboo Li era un critico d’arte molto quotato, assistente presso l’università e consulente esterno del Louvre e, mentre anche quella gelida mattina di gennaio si preparava a uscire per raggiungere il suo studio in ateneo, pensò di non aver mai perso l’entusiasmo dell’inizio. S’infilò il cappotto cinese di maglia blu scuro e i guanti di cotone nero (amava accentuare le sue caratteristiche somatiche miste con accessori orientali) e si calcò il berretto fin quasi sugli occhi. Sul tavolino Thonet dell’ingresso trillò il telefono.
«Mademoiselle Mac Neely? Sono il commissario Damiens della Sureté.»
Ancora quella storia del disegno di Cellini rubato, pensò. Bamboo sapeva che non l’avrebbero mai più ritrovato. Era stato un colpo troppo perfetto, avvenuto in pieno giorno, sotto il naso di tutti.
«Mi dica commissario, ci sono novità?»
«Sì, ma la faccenda è un po’ delicata e preferirei parlarne a voce. Ci vediamo nel tardo pomeriggio? Alle 17 e 30 le andrebbe bene?»
«Alle 17 e 30 sarò da lei.» Dal giorno del furto Bamboo era diventata il punto di riferimento della polizia parigina, sia perché in quel periodo l’opera era sotto la sua sovrintendenza per motivi di studio, sia per volontà della Direzione del Museo che si fidava della sua precisione.
Solamente un collezionista esaltato avrebbe rischiato tanto per un’opera così insulsa. Ma come Bamboo ben sapeva, non esisteva al mondo un collezionista esaltato di Benvenuto Cellini, dal momento che le pochissime opere rimaste dell’artista appartenevano tutte a musei. Un mistero che, comunque, la polizia francese non intendeva lasciare insoluto.
L’ufficio di Damiens era spoglio e freddo. Corrispondeva esattamente a quelli descritti dai classici della letteratura gialla, pensò Bamboo entrando puntuale alle 17 e 30. Strinse la mano del corpulento commissario che, al contrario del suo ufficio, era l’opposto del tipico funzionario di polizia. Piuttosto giovane, sui quaranta, azzimato nonostante la mole, bonario e sorridente. Damiens la fece accomodare davanti alla scrivania di formica, nella sedia libera di fianco a uno strano personaggio.
Bello. Più che bello.
Un uomo alto, con tanti capelli sale e pepe, un po’ irsuti. Gli occhi silenziosi, grigi, indagatori, con una luce nel fondo difficile da catturare, una piccola luce triste.
E poi le mani. Lunghe e scure. Grandi e intelligenti. Disposte come una cornice attorno a un cucciolo di Yorkshire dagli occhi vivacissimi e le zampe posteriori fasciate, accucciato fra le pieghe del loden sulle ginocchia accavallate dell’uomo.
«Le presento il dottor Tonolli. È un giornalista italiano.»
Lui la guardò e sorrise.
Il cane la guardò e, se anche avesse potuto, non le avrebbe sorriso.
Bamboo fu folgorata da quella visione. Si sentì impotente nei confronti di se stessa. Si sentì quasi male. Sapeva che avrebbe perso la testa per quell’uomo. Era inevitabile. Pensò anche di essere improvvisamente diventata pazza, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da lui e dal suo cane. Pensò che avrebbe dovuto scappare, ma non c’era scampo.
Pensava a tutto fuorché a Benvenuto Cellini e al commissario. Pensò di essere talmente stordita che lui avrebbe potuto capirlo, perché quegli occhi grigi avrebbero saputo leggerle nel pensiero.
E allora avvampò.
«Avrete tempo e luogo per conoscervi. Per ora, brevemente, mademoiselle Mac Neely deve sapere che il mio amico monsieur Tonolli è venuto a Parigi per indagare sulla morte per omicidio di un certo Paolo Valenti. Lei si chiederà chi era questo Valenti e perché ne stiamo parlando con lei. Un nostro informatore ci segnalava da tempo alcuni movimenti strani di questo affarista italiano alle aste di opere d’arte. Per movimenti strani intendo contatti fuori dell’acquisto: Valenti faceva soprattutto pubbliche relazioni di se stesso con i rappresentanti delle collezioni di privati talmente altolocati da non potersi esporre. Mi capisce? Evidentemente aveva qualcosa da vendere o da smerciare. Non siamo mai riusciti a coglierlo con le mani nel sacco anche perché sembra sia stato coperto, aiutato e protetto proprio da uno di quei collezionisti misteriosi e ambigui. Tonolli, al contrario della polizia italiana, è sicuro che Valenti porta con sé nell’altra vita un segreto con connessioni molto più esplosive di quello del furto al Louvre, furto con il quale peraltro doveva avere a che fare, visto che è stata più volte segnalata la sua presenza nella sala del museo dov’era la teca del disegno. Non gliene avevo parlato, perché non sono mai stato in possesso di prove convincenti. Ora possiamo tornare a noi. Monsieur Tonolli, come le spiegherà meglio, è convinto di essere riconoscibile dall’assassino di Valenti e dunque ha bisogno di un partner per poter restare nell’ombra. Abbiamo pensato a lei per molti motivi, non ultimo il fatto che ha seguito dall’inizio il caso Cellini. Allora, se la sente di aiutarci?» Damiens le sciorinò un sorriso melenso.
Il cuore di Bamboo si allargò. Come avrebbe potuto rifiutare? Guardò l’uomo della sua vita: in quel momento le grandi mani accarezzavano piano il piccolo cane fasciato. Infilò i suoi occhi obliqui in quelli profondi di lui e domandò: «Quando si comincia?»
«Da questa sera stessa - rispose Carlo in un francese perfetto - il tempo di una doccia e ci si può vedere per cena. Penso che un ristorante cinese potrà essere di suo gusto. O no?»
La camera dell’Hotel de l’Université era la solita, la numero 15. Con le finestre affacciate sull’omonima via, stretta e lastricata, dietro il quartiere degli Antiquari, in St. Germain des Prés. Carlo avrebbe potuto raggiungere il Pont Royal in rue Montalambert in meno di cinque minuti a piedi. La voglia era tanta, ma sarebbe stato sciocco. L’eventualità di incontrare Mister X era troppo rischiosa, avrebbe mandato all’aria tutto il piano costruito faticosamente e pericolosamente all’insaputa della polizia italiana. Ecco perché contattare Antoine sarebbe stato compito della ragazza cinese.
Una donna bella, pensò Carlo sotto il getto confortante della doccia.
Più che bella. Una cinese alta, con gambe lunghe e snelle, pelle di porcellana e occhi scuri come la notte. Occhi obliqui ma grandi, maturi, pieni di candore. Puliti.
“Bella e pericolosa”. Carlo la archiviò in questa pratica e decise di non tornare mai più sull’argomento.
Intercettò la suoneria del suo cellulare, discreta ma per fortuna insistente.
«Ciao Carlotto. Come stai tesoro?» Zia Lucia non sembrava porsi troppe domande sulla sua improvvisa trasferta in Francia e lui si guardava bene dal fornirle delucidazioni non richieste. «Benone grazie. Lì come va?»
«Tutto nella norma. La vita è di nuovo noiosa. La piccola Mayfair s’è ripresa?»
«Sì, è quasi a posto. Hai sentito Viani?»
«È passato alla villa proprio questa mattina. A dire la verità mi sembrava un po’ strano. Mi ha chiesto con insistenza se avevo tue notizie, se qualcuno ti ha cercato qui, se è arrivata posta per te.» Carlo sorrise. L’accordo con il direttore era proprio quello che lui in Italia captasse ogni elemento e notizia anomali per poi comunicarglieli. Il vero problema sarebbero stati gli appuntamenti telefonici. Supponendo infatti che avrebbero avuto i cellulari sotto controllo dalla polizia, i due giornalisti avevano deciso che avrebbero utilizzato i loro telefoni privati per rare telefonate formali, preferibilmente di sera all’ora di cena, o per segnalazioni in codice. Mentre, per qualunque reale comunicazione informativa avrebbero usufruito di due apparecchi pubblici. Viani di quello del “Bar Gatto” in corso Buenos Aires a Milano, Tonolli di quello di “Les deux Magots”, in St. Germain. L’appuntamento era fissato a giorni alterni, dalle 13 alle 14 e 30, salvo urgenze da preannunciare attraverso i cellulari con due squilli a vuoto.
«Ti dirò che mi ha un po’ irritato - continuò la nobildonna - e così non gli ho riferito del pacchetto che è arrivato questa mattina a tuo nome».
«Quale pacchetto?» Carlo non si accorse di aver alzato la voce.
«Perché gridi? Sembra qualcosa di pubblicitario. È piccolo come un libro tascabile o la cassetta di un film...»
«Ah, le donne! Cerca di far funzionare la logica, porcogiuda. Chi vuoi che mandi a casa tua un pacco per me?»
«Non ho idea. Solo un parente potrebbe farlo, ma noi non abbiamo parenti... Ora comunque lo apro e ti dico cos’è.»
«Nooooo!!!» L’urlo di Carlo rimbombò nella cornetta. Quel pacchetto poteva contenere qualunque cosa, anche dell’esplosivo.
«Tu sei pazzo, un pazzo isterico. Forse anche pericoloso. Se non mi chiedi scusa e non mi dici subito cosa fai a Parigi e cosa sono tutti questi misteri, riattacco e ti diseredo.»
«Hai ragione, scusa. Sono troppo stanco, devo riposare e rilassarmi. Forse ho capito la ragione di quel plico. Quindi, vorrei che tu chiamassi subito Viani e gli dicessi di far venire alla villa il bravo tecnico di cui mi parlò per far sistemare il guasto del videoregistratore in camera mia.»
«Tu stai straparlando. Devi essere gravemente malato. Quasi chiamo subito un medico, non Viani, capisci?»
«Ascoltami bene principessa - Carlo stemperava ogni parola - fai quello che ti dico. Chiama Viani e chiedigli espressamente di far aggiustare il videoregistratore in camera mia. Lui capirà. Mi raccomando, non aprire da sola quel pacchetto, hai capito bene? Aspetta Viani e dallo a lui.»
«Dev’essere un gioco di moda a Parigi - pensò zia Lucia riattaccando - e non sono certo io quella che si tira indietro.»
Carlo sospirò sollevato. La frase in codice avrebbe fatto capire a Viani di spiegare a grandi linee il loro piano alla zia per sfruttare la sua collaborazione senza rischiare di essere scoperti dalle autorità giudiziarie. I due giornalisti intendevano servirsi della polizia, non servirla. E questo era determinante per poter arrivare per primi alla soluzione dell’enigma e ottenere un salutare scoop per il giornale.
Si salutarono come sempre. Lui dalla soglia della camera con la solita frase: «Ciao piccola. Torno subito.» Lei dal pullover di cachemire sullo scendiletto, con gli occhi di carbone fissi su di lui che se ne andava. E lui sapeva che lei sarebbe rimasta lì, per qualche minuto incredula, con lo sguardo fisso sulla maniglia della porta, le piccole orecchie erette a captare anche il minimo fruscìo dal corridoio nella speranza di un errore, nella speranza dell’immediato ritorno del suo amico.
Carlo catturò un taxi in corsa con la mano alzata: «On va à Les Halles, s’il vous plaît.»
«Bonsoir Bamboo.» La individuò subito, nonostante il buio del locale, in un tavolino d’angolo con la tovaglia rosso lacca.
«Buonasera Carlo. Penso sia più semplice che io parli in italiano, non crede?»
Allo stupore muto di lui, Bamboo rispose: «Per il mio lavoro è indispensabile conoscere la lingua degli artisti.»
Effettivamente ciò rese tutto più facile. Carlo raccontò con precisione le vicende di Bellagio mentre la donna era tesa a cogliere ogni parola, temendo di poter perdere il filo, distratta dalla presenza di quell’uomo che la destabilizzava nell’anima.
Tornò inevitabilmente col pensiero a un’ora prima.
«Ciao, sono Pierre.»
«Quale Pierre?» Stringeva il cordless fra la guancia e la spalla, mentre stava terminando di truccarsi davanti allo specchio del bagno.
«Sono quel Pierre che da tre anni sta con te, sai l’architetto. Abbiamo anche provato a parlare di matrimonio, ricordi?»
No. Non ricordava più altro uomo al di fuori di Carlo Tonolli.
«...pensavo allora che domani lei potrebbe presentarsi al bureau del Pont Royal e chiedere di questo Antoine come fosse uno che lei non conosce personalmente ma che qualcuno le ha chiesto di incontrare. Che ne dice? Mi sembra incerta...» La voce profonda di Carlo la riportò al presente.
In realtà, come aveva temuto, s’era persa negli occhi dell’uomo e nei suoi pensieri. Non aveva ascoltato nulla se non la conclusione. E se tutto ciò non fosse bastato, non sapeva cosa dire. Azzardò: «Sì, certo, si può fare. Ma che ne pensa se domandassi direttamente di Paolo Valenti, dicendo di avere con lui un appuntamento?»
«Mi sembra che lei non abbia capito. Sarebbe troppo rischioso. Valenti è morto ormai da tre giorni, i suoi collaboratori dovrebbero esserne al corrente. Noi dobbiamo capire chi cavolo è questo Antoine, e al più presto. È chiaro? Io sarò con lei, ma nell’ombra. L’aspetterò in un bar vicino e terrò d’occhio ogni sua mossa. Ci saranno anche parecchi poliziotti in incognito dentro e fuori l’hotel, per cui stia tranquilla. Non le può capitare nulla.»
Bamboo annuì. Sarebbe andata in capo al mondo con e per Carlo Tonolli, ma non poteva dirlo proprio a lui.




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