-settima puntata-
5. Il presunto colpevole
«Mi faccia preparare una spalla di due colonne in prima pagina per domani», intimò Carlo a Viani prima di scappare in camera con Mayfair ammaccata e sanguinante.
Con quanta precisione tornavano tutti i conti! La statuetta, di mano ignota d’inizio secolo, raffigurava un ballerino in atteggiamento di riposo (braccia allungate lungo il corpo, mani intrecciate, gambe unite e piedi divaricati, il mento appoggiato al petto) e proveniva dalla più bella stanza della villa, “Il Tiglio”. Dalla stanza che Lucia Guanzani aveva destinato all’ospite più illustre, Barnaba De Mei. La Scientifica, naturalmente, rilevò che le impronte digitali sul bronzetto corrispondevano a quelle del vecchio imprenditore.
Carlo disinfettò subito il muso di Mayfair. Poi provò a farla camminare ma, ahimé, la cagnolina, di nuovo, non riusciva a reggersi in piedi. Guaì piano, guardandolo come per scusarsi, e si lasciò andare sul tappeto come una marionetta senza fili.
«Professor Benni? È lei? Sono Tonolli... Mi scusi... a capodanno... la disturbo a casa, ma...» La voce da ragazzo del medico vibrò di preoccupazione dall’altra parte del filo: «Che è successo alla nostra amica?» Carlo raccontò brevemente la battaglia di Mayfair con i Persiani e le tragiche conseguenze.
«Faccia tutto quello che ora le dico con la massima precisione e me la porti in ambulatorio fra tre giorni.»
Quando riattaccò, Carlo era agitato e con ansia rilesse ad alta voce i suoi appunti: «Impacchi di ghiaccio per mezz’ora direttamente sulle vecchie fasciature - fasciature nuove strette - un quarto di pastiglia di antidolorifico al giorno - un cucchiaino di calcio nella razione della mattina - immobilità totale.»
Telefonò a Guidone per il ghiaccio e tentò di ricordare dove aveva messo le bende nuove e i farmaci che Mayfair ormai non prendeva più. Aprì l’armadio, frugò nelle tasche interne della valigia vuota, fu investito da una pigna di indumenti dal ripiano superiore e maledisse il suo disordine. Quando, con scarse speranze, infilò le mani nella sacca da tennis, Mayfair, che aveva seguito ogni sua mossa, iniziò ad abbaiare con foga. Carlo la osservò: semisdraiata sullo scendiletto, il collo sottile allungato verso di lui, Mayfair abbaiava, abbaiava, sottolineando i suoi richiami con un breve ululato. Gli stava chiaramente indicando che avrebbe dovuto riguardare con più attenzione nella sacca da tennis... come, la sera prima, avrebbe dovuto guardare nella “Stanza dei Persiani”...
Spostò accuratamente calze, palline, scarpe, magliette. Nulla. Aprì la cerniera grande laterale: polsiere, corde di ricambio, asciugamani. Guardò Mayfair, con aria interrogativa. Ora lei abbaiava quasi con aggressività. La tasca interna! Ecco. Una piccola busta chiusa di cartoncino imbottito. Fu facile scollare la piega autoadesiva. Sembrava vuota. Carlo la capovolse e si ritrovò sul palmo della mano una piccola chiave cromata con inciso il numero 7. Mayfair tacque di colpo.
«Il tuo italiano lascia ancora molto a desiderare, amica mia. Comunque sono sicuro che, col tempo, la tua pronuncia migliorerà.» Intenerito e orgoglioso, Carlo accarezzò la cagnolina, sigillò di nuovo la busta nella quale piazzò però la chiave della sua casella della posta e nascose la “numero 7” in fondo al contenitore del rasoio elettrico.
Il sostituto procuratore Marsi dichiarò liberi di andarsene tutti gli ospiti con l’unica raccomandazione di tenersi a disposizione nella settimana seguente per eventuali interrogatori supplementari e, dopo un lungo, estenuante e infruttuoso colloquio con De Mei, gli concesse di passare la notte alla villa, sotto lo stretto controllo di una pattuglia di poliziotti.
Il vecchio sembrava sempre più stordito e senza forze. Continuava a ripetere di essere innocente, di non capire, di non ricordare nulla. Sembrò farfugliare anche quando interpellò per telefono lo studio legale che avrebbe dovuto rappresentarlo. Kirstin gli stava sempre vicino, lo fissava, studiandolo come se lo vedesse per la prima volta.
La serata che seguì fu angosciante. Nel “Salone Verde” si riunirono a cena i Viani, Donna Lucia con l’Adele, Carlo e Gerti. Kirstin aveva comunicato di volersi occupare personalmente del marito, per poter restare sola con lui fino al momento dell’arresto previsto per il mattino seguente, all’alba.
Nessuno riuscì a mangiare molto. A tratti qualcuno commentava reiterando frasi e ricordi della sera prima, nel vano tentativo di scoprire il bandolo di un puzzle incredibile e confuso. Lucia Guanzani notò il silenzio del nipote. Cercò di stuzzicarlo in mille maniere, una più inutile dell’altra. Alle 21 arrivò il fattorino del giornale con il materiale richiesto. Tonolli filò in camera sussurrando al collega: «Lo faccia aspettare qualche minuto, il tempo di stampare il pezzo dal Macintosh.»
I cani non conoscono il concetto di morte, dunque sopportano il dolore fisico meglio dell’uomo. Ma irrazionalmente. Eppure Mayfair, “sentiva” che le sue zampe dovevano stare immobili. Così non tentò di alzarsi, anche se avrebbe potuto farlo, nemmeno quando lo vide entrare, quasi di corsa. Solo, non riuscì a controllare la vibrazione della coda e il battito accelerato del cuore. Se avesse potuto parlare, lo avrebbe chiamato per nome perché la guardasse soltanto per un attimo; o gli avrebbe detto che lo amava e che quando quella stanza si riempiva del suo odore un po’ infantile lei si inebriava. Ma lui, in quel momento, non la notò neppure. Lei lo sentiva lavorare alla scrivania d’angolo ma non poteva vederlo. Dopo pochi minuti, lui se ne andò, lanciando nella sua direzione soltanto un breve sguardo di controllo. La luce centrale si spense e la porta si riaccostò cigolando. Lei riabbassò il muso sulle zampe anteriori e riprese ad aspettarlo.
Passi. Dopo qualche minuto passi nervosi e leggeri dal corridoio esterno si amplificarono in camera. La porta cigolò di nuovo. Mayfair alzò di scatto il muso e vide una persona avvicinarsi al letto. Tutti i suoi sensi all’erta la informarono di non essere stata notata e le intimarono di restare immobile. E questa volta senza abbaiare. Temeva le reazioni di quella persona. Captava vibrazioni nervose in tutto l’ambiente, vedeva quella testa muoversi a scatti da una parte e dall’altra per poi fermarsi in ascolto verso l’ingresso socchiuso. Quando quell’ombra si decise a spostarsi, per poco non la calpestò. Mayfair riuscì comunque a non muoversi e la osservò aprire l’armadio e frugare nella sacca da tennis di Carlo. Infine, per raggiungere la porta d’ingresso, il nuovo ospite sfiorò di nuovo il letto e perse qualcosa dalle mani. Appena si ritrovò di nuovo sola, Mayfair sporse il più possibile il collo e riuscì ad afferrare quel qualcosa con i denti.
Un oggetto piccolo, con un odore forte e una consistenza soffice che, per una frazione di secondo, le evocò la figura del professor Benni.
E Mayfair decise di nascondere fra le pieghe del pullover di Carlo anche quel nuovo gioco maleodorante, proprio vicino al suo piccolo osso di caucciù preferito.
Occhiello:
OMICIDIO VALENTI A BELLAGIO
Titolo:
TUTTE LE PROVE INCASTRANO UN
IMPROBABILE ASSASSINO
“Nemmeno un bambino potrebbe cadere nell’ovvietà del vassoio d’argento carico di indizi provati che ci hai offerto tu, ignoto omicida, con tanta sollecitudine... giusto la nostra polizia e i nostri giovani e zelanti magistrati potevi infinocchiare...”.
Viani finì di leggere le due cartelle fitte di testo. «Questa è la “Cavalcata delle Walkirie”, mozza il fiato in un crescendo senza pause, ma credo di non poterlo pubblicare.» La voce del direttore era bassissima e ovattata nello spazio esiguo del sottoscala nell’ingresso della villa.
«Ok, allora non se ne fa nulla», rispose nervoso Tonolli.
«Calma, calma. Sto cercando una soluzione. Nemmeno lei può permettersi di firmare affermazioni del genere. Significherebbe che ha occultato alcune prove o che, nell’interrogatorio, ha dichiarato il falso.»
«No di certo. La mia è una personale interpretazione dei fatti. Legga con maggiore attenzione.»
«Lei sa meglio di me che che la cronaca non si fa con interpretazioni o supposizioni, e nemmeno con le sensazioni. Non è credibile. Tagli almeno il suo giudizio tranchant sulla superficialità di polizia e magistratura.» Viani insisteva con pacatezza.
«Non taglio proprio niente. Mi prendo le mie responsabilità. Le concedo di firmare con uno pseudonimo, non di certo per nascondermi alle autorità giudiziarie visto che sanno benissimo che gli unici giornalisti presenti sul posto siamo io e lei, ma per giocare al gatto e al topo con il bastardo che ci sta prendendo per il naso, e come le ho già detto, anche nell’interesse della polizia.»
Carlo era irremovibile e Viani fu costretto a cedere. In fondo, considerò, con la miseranda tiratura di venticinquemila copie (cinquemila in più il lunedì, grazie alla cronaca sportiva), il suo giornale stava esalando l’ultimo respiro. La Proprietà già parlava di tirare le somme entro il primo semestre del nuovo anno. Il suo giornalaccio boccheggiante non dava fastidio a nessuno e si poteva permettere un lusso che tanti mastodonti agognavano: la libertà.
«E va bene, ma si ricordi che da domani ci saranno tutti addosso, o meglio, le saranno tutti addosso.» Viani si sentiva fibrillare come a un tavolo di roulette nel momento in cui si prova a puntare tutto ciò che si possiede anche se, non poteva negarlo a se stesso, era carico di entusiasmo.
«Me ne frego. Io non intendo darle problemi in più, intendo darle molti lettori in più. A proposito, mi firmi il pezzo “Mayfair”.»
Si sorrisero, complici come due ragazzini colti in fallo, e si congedarono stringendosi forte la mano.
Mayfair dormiva profondamente sognando di succhiare dalle mammelle di sua madre. Le sue labbra semiaperte emettevano il classico verso di risucchio della poppata dei cuccioli. Fu proprio per questo che venne notata dalla persona che rientrò in camera. Sempre quella di prima. Non è chiaro se il cane sobbalzò più per il cigolìo della porta che per quell’ondata di nervosismo quasi palpabile, ancora più forte della prima volta. Nemmeno ora si arrischiò ad abbaiare anche se non poté trattenere un piccolo ringhio. Il visitatore afferrò un vecchio cuscino e glielò scagliò addosso, ma lei continuò a ringhiare.
Evidentemente non fu un buon deterrente visto che, in preda a una furia incontenibile, l’uomo aprì e frugò cassetti e antine, comodini e scrivania. Tuttavia non ebbe tempo di finire il suo lavoro perché Mayfair iniziò a mugolare: aveva riconosciuto il passo elastico di Carlo già molti secondi prima che giungesse alle sue orecchie umane. Così l’uomo ebbe il tempo di fuggire, lasciando nell’aria le tracce, percettibili solo al cane, della sua ansia.
Mayfair lo stava aspettando immobile. Quando lo rivide riuscì a muovere soltanto il codino tronco e nei suoi occhi abbattuti spuntò un lumino di felicità. Carlo le controllò le fasciature con la massima delicatezza, la carezzò, le parlò sottovoce. E, guardando quel musetto attento a ogni suono emesso dalle sue labbra, a ogni gesto delle sue mani, provò disperazione vera, senza vergogna. Intuiva lo sforzo di quel piccolo animale di non lamentarsi, di adattarsi a qualsiasi situazione pur di stare con lui. E si commosse, sperando di poter rivedere al più presto Mayfair ritta e impettita sulle quattro zampe. In questo senso il veterinario era stato molto chiaro: dopo tre giorni di immobilità la cagnolina doveva muoversi anche per riattivare la funzionalità degli organi interni oltre a quella degli arti. Se ciò non si fosse verificato le speranze di salvarla sarebbero state davvero minime. Carlo obbligò se stesso a non pensarci. «Vediamo un po’ se è venuto qualcuno a ritirare la bustina imbottita. Magari tu potessi davvero parlare, amica mia!» Frugò nella tasca interna della sacca da tennis. Come prevedeva, la busta era sparita. Mister X dunque era tornato, durante l’ora scarsa della cena, l’unico momento in cui Carlo non si trovava in camera. Gli unici assenti in quell’occasione erano i De Mei che peraltro, a detta delle guardie interpellate da Carlo poco prima di rientrare in camera, non avevano mai lasciato la stanza.
Qualcuno bussò lievemente alla porta e Mayfair ringhiò protettiva.
«Sssstt... sono io.» Sua zia s’infilò in camera chiudendosi la porta alle spalle. «Sono venuta a vedere come sta la piccolina.» Intenerita alla vista del cucciolo abbandonato su un fianco, sedette sul letto per osservarlo più da vicino e carezzarlo piano.
«Devo ammettere che questo cane è davvero un po’ speciale. Sembra così sensibile e riflessivo nonostante le sue dimensioni e la sua età. Cosa dice il veterinario? Se la caverà?»
«È troppo presto per dirlo, non mi ci far pensare. Soltanto il passare delle ore nell’immobilità totale può esserle d’aiuto. Speriamo.» Sedette anche lui sul letto, pensoso.
«Vedo che alla fine vai d’accordo col Viani», abbozzò la zia indagatoria.
«Mmm... brava persona», troncò Carlo allungando a Mayfair dei bocconcini di prosciutto cotto rubato in cucina. Sperava che la zia levasse le tende in fretta per poter continuare le sue riflessioni in pace.
«Sono sinceramente dispiaciuta per il povero De Mei e, ti dirò, anche incredula. Sembra impossibile che un uomo in quelle condizioni di salute possa essere in grado di ucciderne un altro, usando tutta quella forza poi! E se non bastasse, dalla sedia a rotelle.»
«Semplice: non è stato lui. Te l’ho già detto.»
«E allora chi? Le uniche impronte rilevate sono le sue.»
«La verità prima o poi verrà a galla, vedrai.» Carlo si alzò e aprì il primo cassetto del comò per cercare una T-shirt da indossare per la notte. Non aveva mai posseduto un pigiama. Li odiava, come odiava pantofole e vestaglie al punto che, a volte, si domandava cosa mai avrebbe fatto se si fosse trovato costretto ad andare all’ospedale all’improvviso.
Si accorse subito che il cassetto era stato rovistato, anche se apparentemente sembrava tutto in ordine. A parte il fatto che era tutto troppo in ordine, Carlo ricordava perfettamente di aver sistemato sulla destra due paia di calze blu e una cintura che ora si trovavano invece sul fondo. Riguardò meglio. Sua zia continuava a parlare ma lui non la sentiva più. Mayfair pigolò. Carlo fu certo che con quel verso il cane stesse incitando la sua ricerca. Guardò e riguardò. Nulla. Richiuse il tiretto, deluso.
«Ma tu non mi ascolti!», protestò sua zia.
«Hai ragione. Scusa, sono davvero stanco.» La baciò e, con ferma dolcezza, l’accompagnò alla porta. Era chiaro, pensò sotto il getto della doccia: Mister X doveva essersi accorto della sostituzione. Probabilmente era tornato a cercare la chiave originale e, non avendola ritrovata nel breve intervallo della cena, ci avrebbe sicuramente riprovato alla prima occasione. Magari quella notte stessa, munito di gas soporifero o, peggio, di rivoltella e silenziatore. Sentì freddo. Volò fuori dalla doccia e, nudo e gocciolante com’era, spinse il comò contro la porta e si preparò a una notte di veglia.
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