Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

lunedì 9 giugno 2014

Mayfair e il mistero del lago

-quinta puntata-




3. La villa

Amava moltissimo “Villa Guanzani”. Gli ricordava un’infanzia felice, fatta di corse nel parco, delle risate gioiose di una mamma ancora bambina che lo stringeva al petto come una bambola, sull’altalena o in riva al lago, e gli cantava dolcissime nenie inventate per lui.
Gli ricordava estati interminabili e profumate di lavanda, il canto delle cicale nel primo buio della sera e le merende con i bambini del paese sotto la pergola.
Gli ricordava un’infanzia finita troppo presto, racchiusa per sempre fra le piccole dita di cera della sua mamma bambina, intrecciate sul cuore, l’ultima volta che la vide.
Era la sua più grande ricchezza quell’infanzia. Era la forza del suo animo, il giardino segreto dove potersi rifugiare lontano dalla realtà più squallida, l’unica vera fonte della sua creatività.
Guardò la fotografia della madre ridente sul comodino della sua camera. Zia Lucia aveva avuto la sensibilità di lasciare inalterato ogni oggetto di quell’enorme stanza. Compresa la culla di vimini di lui neonato, oggi piena di cuscini di passamaneria antica.
Si annodò il papillon dello smoking davanti alla specchiera liberty che, alle sue spalle, rifletteva Mayfair accoccolata nel suo unico pullover di cachemire arrotolato sullo scendiletto. Soltanto l’odore di un indumento di Carlo infatti, dava al cane la certezza del suo ritorno.
Si accomodò il lenzuolo sulla testa con i due fori in corrispondenza degli occhi, sempre sbirciando il muso della piccola amica, ora inclinato da un lato per la curiosità, e disse ad alta voce: «Ebbene sì, sembro un po’ pirla. E allora? Non sono richiesti commenti, ok?»
La salutò con un buffetto sul naso e uscì, lasciando socchiusa la porta perché Mayfair non si sentisse isolata. Poi la spiò dalla fessura, così immobile, e se la immaginò nelle ore dell’attesa, rizzare le orecchie al minimo fruscìo, per tornare a sonnecchiare delusa, nel tentativo di far volare quel tempo inutile, subìto e non vissuto senza il suo grande amico.
Sulle scale incontrò Kirstin vestita da caramella. Il corpo sinuoso fasciato da un abito luccicante di paillettes cremisi, bordato al petto e sotto le ginocchia da carta plissettata d’oro fissata da due nastri legati a fiocco.
«Sei incantevole e, lasciami dire, tutta da gustare.» Aveva deciso un gioco d’attacco, senza mezzi termini a rischio di ricevere una sberla. Ma Kirstin lo stupì di nuovo. Ridendo gli sussurrò: «Sono tanto dolce da far resuscitare i morti!»
Carlo si ricordò del lenzuolo che lo ricopriva solo in quel momento. Tentò goffamente di liberarsene ma Kirstin aveva già raggiunto la soglia del “Salone del Gazebo”.
Maledisse le feste mascherate e la seguì.
Nella stanza la piccola abat-jour sul comodino diffondeva un alone rassicurante. Il cane non aveva paura. Istintivamente aveva la certezza che lui sarebbe tornato. Appoggiò il muso sulle zampe anteriori, gli occhi semichiusi in lotta con il sonno dei cuccioli. In attesa, senza tristezza. Con un po’ di noia, semmai.
L’armadio di quercia emise un gemito, uno scricchiolìo.
Mayfair girò soltanto lo sguardo, per nulla incuriosita. Conosceva bene il linguaggio del silenzio e della solitudine. Così, non si scompose nemmeno per l’improvviso sgocciolìo del rubinetto del bagno, che ogni tanto e per chissà quale ragione si animava.
Fu quando, poco dopo, il suo udito finissimo captò un passo impercettibile e sconosciuto sulla passatoia del corridoio di fuori, che si alzò sulle zampe e si piantò a un metro dalla porta. Provò anche ad abbaiare: tutto sommato quello era territorio suo e, da buon terrier, iniziava, se pur stentatamente, a mettere a punto il suo lavoro di “guardia”.
L’uscio si spalancò e si richiuse in pochi secondi, cigolando.
Nella penombra Mayfair vide perfettamente la sagoma di un uomo e continuò ad abbaiare.
«Taci, bestiaccia.» Il tono sommesso e minaccioso non bastò a spaventare il cane che non la smetteva di gridare, così l’uomo si sfilò la cravatta e gliela annodò alla bell’e meglio attorno alla bocca. E Mayfair, per forza di cose, zittì. Poi l’uomo aprì l’armadio, afferrò la sacca da tennis di Carlo, aprì la cerniera di una tasca laterale e vi infilò una piccola busta sigillata di cartoncino giallo. Mayfair l’aveva seguito passo passo e non perdeva una mossa. E quando l’uomo tornò verso l’ingresso se la ritrovò attaccata al piede, lo sguardo fiero da sotto in su. Lui si chinò, le sfilò dal muso la cravatta e uscì velocissimo, com’era entrato.
Ogni locale della villa aveva un nome, dipinto in corsivo inglese blu sul fondo latteo di una piastrella di ceramica sopra la porta. Le camere da letto al primo piano, tutte affacciate sul parco, lo acquisivano dalla pianta più vecchia visibile dalle finestre (“Il Tiglio”, “La Magnolia”, “La Quercia”...); sale, saloni e studi a pianoterra dal colore dominante degli arredi, o dall’esposizione sul lago. Il “Salone del Gazebo” era il locale più importante, il cuore di tutta la casa. Affacciato sulla “Veranda Grande”, accompagnava lo sguardo fino al lago. Stando seduti sul divano a “L’”di fronte alla vetrata si poteva vedere, sulla destra, il gazebo di ferro battuto verde, proprio sulla riva.
Carlo si accomodò nell’angolo al centro del divano e, sorseggiando il primo drink della serata, notò nell’oscurità della notte limpidissima quel bellimbusto del Valenti, vestito con una vecchia divisa di suo zio ammiraglio, dirigersi quasi di corsa verso il gazebo illuminato.
«Mi annoio a morte, ogni anno, in attesa della mezzanotte.» Kirstin mordicchiava nervosamente l’oliva del suo Martini, e scivolò accanto a lui, vicinissima, quasi che il divano assolutamente vuoto al di fuori di loro due non le offrisse altro spazio.
«Io mi annoio sempre. Tutti i giorni dell’anno», insinuò Carlo da sotto il lenzuolo.
Soft Cream, il persiano più vecchio e più grasso di sua zia, si materializzò dal nulla e disturbò la loro intimità saltando silenziosamente ma pesantemente addosso a Carlo.
«Conosci tutta questa gente?», gli domandò la ragazza con uno sbadiglio.
«Più che altro non la riconosco. Comunque, questa sera mi basta riconoscere te.»
Le prese una mano, districandosi a fatica fra il lenzuolo e il sederone di Soft Cream che ronfava beato. Ma quasi subito Kirstin si alzò di scatto, senza una parola, l’aria più che sbalordita, gli occhi azzurri sbarrati sulla veranda.
«Che c’è?», provò Carlo.
Ma lei non rispose. Si avviò alla portafinestra, la spalancò e uscì in giardino.
Mayfair assemblava tutte le caratteristiche della sua razza, in certi casi addirittura amplificandole. Per esempio, la curiosità. Assolutamente esagerata e irrefrenabile. Le scarpe di quell’uomo erano state a lungo esaminate da lei sotto il tavolo da pranzo qualche ora prima, semplicemente perché al posto delle stringhe (come quelle di Carlo), avevano una fibbia laterale impossibile da masticare. Quindi aveva già identificato il tipo. E poi l’olfatto. Imbattibile. Avrebbe riconosciuto quell’odore dolciastro dappertutto. E lo seguì, lungo tutto il perimetro della stanza, finché si trovò davanti all’uscio accostato.
Provò a inserire il muso nella fessura e spinse. La porta cigolò e si aprì quel tanto che bastava per uscire. Lo fece. Seguì le tracce di quell’odore per qualche metro, fino alla scala. Guardò in giù. No. “Sapeva” che non avrebbe potuto scendere. Tornò sui suoi passi, rientrò in camera e riprese posto nel pullover. Anche l’accenno di sonno era scomparso. Il cane era all’erta. E non sbagliava. Dopo qualche minuto riudì un passo (diverso dal primo) quasi di corsa in corridoio. Spiò dalla fessura un’altra ombra di uomo che si dirigeva dalla parte opposta del primo. Uscì sulla passatoia: l’uomo era scomparso. Annusò l’aria. Un odore denso, chimico, simile a quello del dopobarba di Carlo, si univa a un’altro, meno evidente ma più inquietante.
Mayfair era un cane. Soltanto un cucciolo di cane ma capì lo stesso che il secondo era odore di sangue. Sangue umano. Si mosse sulle tracce di quella scia, sulla sinistra, fino alla fine del corridoio.
E lo vide. Vide un uomo alto entrare in una stanza e lo seguì. Improvvisamente cinque belve inferocite iniziarono a miagolare e a inarcarsi. L’uomo si girò e la vide.
Senza dire una parola infilò uno strano oggetto in una cesta, la afferrò per la collottola, uscì e chiuse la porta. Mayfair si sentì quasi volare verso la stanza di Carlo. Poteva captare il primo afrore chimico direttamente dalla mano che la teneva. E mentre veniva depositata al di là della porta riuscì ad affondare tutti i suoi denti da latte proprio nel palmo di quella mano.
«È in tavola.» La calda, professionale voce del maggiordomo, Guido (o Guidone, come lo chiamava Lucia Guanzani per via della sua considerevole stazza), risuonò nel brusìo dei festaioli. Carlo si alzò dal divano per raggiungere il “Salone del Camino”, dov’era stata imbandita la tavola per trenta persone. Nello svincolo circolare fra i due locali, s’imbatté in sua zia e non riuscì a trattenere una risata disordinata. Era vestita da fatina Bibidibobidiboo, dal film di Walt Disney “Cenerentola”.
«Sei abbastanza cafone», sibilò la donna fra i denti. «Piuttosto dov’è quello sgorbio del tuo cane? A rompere le scatole ai Persiani? A lasciarmi le sue cacchette negli angoli? O a morsicare qualche altro ospite?»
«Mayfair non ha mai morsicato nessuno.»
«Forse mai prima di pochi minuti fa, quando ha addentato la mano di De Mei, che tentava soltanto di carezzarla.» Lucia Guanzani gli sbandierò la bacchetta magica sotto il naso e si diresse verso il policromo gruppo di invitati assemblati attorno al buffet degli aperitivi.
Leggermente turbato, Carlo si domandò quando Mayfair avesse potuto trovarsi da sola con De Mei. L’aveva persa di vista soltanto durante la doccia delle cinque. Ma lei, al solito, lo aspettava accucciata nel suo pullover sullo scendiletto. Per tutto il resto del pomeriggio erano stati insieme, prima per una breve passeggiata in giardino, poi ancora in camera con l’Adele che gli aveva preparato il costume per la festa con un vecchio lenzuolo di lino.
Raggiunse sua zia ma la vide quasi assalita da Gerti, l’infermiera di De Mei, che concitatamente le stava raccontando qualcosa. Carlo riuscì a catturare solo i frammenti di una frase: «Non capisco... l’ho lasciato alle 20 nello “Studio Verde”... solo per un attimo... dovevo portare la giacca del suo smoking in stireria... ora non lo trovo più... Ho guardato ovunque...»
Alla faccia interrogativa del nipote, Bibidibobidiboo mormorò: «È scomparso De Mei.»
«Proprio ora che si mangia?»
«Non dire sciocchezze e datti da fare per trovarlo. La moglie è sparita nel parco, probabilmente con il suo amico Valenti. Ieri hanno passato tutto il pomeriggio negli spogliatoi del tennis. Io accompagno gli invitati in sala da pranzo e, per ora, non dico nulla. Tu sguinzagliati in giro.»
Carlo si avviò suo malgrado verso lo scalone, non senza buttare l’occhio famelico nel “Salone del Camino”. Fu un’ottima idea perché il soggetto della sua ricerca gli apparve seduto proprio a capotavola, leggermente spettinato, in maniche di camicia, lo sguardo perduto nelle fiamme danzanti del grande camino di pietra.
Carlo tornò sui suoi passi: «De Mei è ricomparso. Forse vuole rubarmi il personaggio. In questo momento si trova nel luogo più ovvio, seduto a tavola, in attesa di mettere qualcosa sotto i denti.»
«Impossibile», gridò Faccia di teschio, «Due minuti fa non c’era.»
Lucia Guanzani guardò male la tedesca. «Tutto è bene quel che finisce bene. Raggiungiamolo, ora ho fame anch’io.»
La nobildonna si accomodò alla destra di De Mei e con uno sguardo malizioso gli flautò: «Barnaba caro, ci ha fatti spaventare, lo sa? Gerti era molto agitata: dove si era nascosto?»
Il vecchio la fissò stupito: «Io veramente stavo dormendo.»
«Dormiva? Di certo non nel suo letto!», brontolò sgraziata Gerti aiutandolo quasi fosse un bambino a indossare la giacca dello smocking.
«No. Non nel mio letto. In uno stanzino.» De Mei sembrava confuso da tutte quelle domande.
«Ma quale stanzino? Lei ha sognato davvero!» La tedesca aveva definitivamente perso la pazienza.
Come tutte le persone segaligne e molto magre era chiaramente un’isterica, pensò Carlo, anche se convenne che la faccenda si stava colorando di toni ambigui.
La voce del vecchio imprenditore si fece metallica: «Le ho detto che mi sono svegliato in uno stanzino, pieno zeppo di casse vuote. Quale stanzino non lo so, come ci sono arrivato neppure e tanto meno come mi sono trovato qui. Qualcuno mi ci ha portato e, se non la smette di seccarmi, le dovrò chiedere di cenare in camera sua.»
Gerti ammutolì.
Zia Lucia interrogò incerta Carlo al suo fianco: «Che sia la sua malattia che gli sta giocando questo brutto scherzo?»
«Non preoccupiamoci troppo, almeno per ora. Piuttosto non vedo segni di denti di cane sulle sue mani. Che ne dici?»
Il volto della donna si fece insolitamente pensoso e riflessivo. Gli occhi sulle dita tremanti di De Mei. «Non so cosa pensare. Lui stesso mi ha raccontato l’episodio del morso e, poco fa, la sua mano destra era addirittura fasciata.»
Furono interrotti dall’arrivo delle prime portate di antipasto, accolte con ovazioni dagli ospiti affamati. Carlo osservò la sua immagine illuminata dalle candele, riflessa dall’enorme specchio sulla parete di fronte, e si sentì ridicolo. Per poter mangiare aveva ripiegato il cappuccio del lenzuolo sulle spalle e, più che un fantasma, ora ricordava a se stesso Sean Connery nel film “Il nome della Rosa”. Magari un po’ meno stempiato...
Fra un Pierrot ridanciano e un Gatto con gli Stivali annoiato, appena sulla destra davanti a lui, s’era seduta Kirstin. Pallida, visibilmente nervosa, gli occhi freddi.
«Che ti è successo piccola?» le domandò tentando di versarle del vino.
La ragazza allontanò con la mano la bottiglia protesa sul suo bicchiere. «Sono preoccupata per mio marito», gli rispose distratta guardando il posto vuoto in fondo alla tavolata. Carlo seguì il suo sguardo. Mancava Valenti.
«Già. Ho sentito. Ma credo siano episodi purtroppo frequenti in caso di diabete grave.»
L’intenzione era stata quella di rassicurarla e non era certo preparato alla violenta reazione che seguì. Furiosa come una tigre, la ragazza lo fissò stralunata e strillò: «Cosa hai sentito? Di quali episodi stai parlando?»
«Della faccenda dello stanzino e delle amnesie.» Il boccone di torta salata che stava portando alle labbra restò a mezz’aria fra il piatto e la sua bocca, in bilico sulla forchetta.
«Quale stanzino? Vi siete tutti messi d’accordo per farmi impazzire? Questi scherzi non mi piacciono. Vorrei ricordare che oggi è capodanno, non carnevale.» Ora Kirstin singhiozzava disperata. Sembrava inveire contro tutti i presenti che ammutolirono di colpo. Felice di riabilitare la sua immagine agli occhi di De Mei, Gerti arrivò prontamente in soccorso. Accolse Kirstin fra le braccia e, sorreggendola, l’accompagnò in camera. «Ma cosa succede? Che significa tutto ciò?» Dall’altra parte del tavolo, Gatto con gli Stivali si era chinato verso Carlo che, catturato dall’assurdo atteggiamento di De Mei tornato dopo l’exploit con Gerti indifferente a tutto, troncò subito con un «Non mi rompa le palle.»
«Lo sa che lei è sempre molto villano con me?» Riconobbe la voce nasale di Viani. «E questo mi dispiace perché, al contrario, io nutro sincera simpatia per lei, Tonolli. Mi chiedo cosa posso averle fatto.»
«Scusi tanto, direttore», sillabò altezzoso Carlo alzandosi e, con un inchino si congedò.
Stabilito che la serata sembrava per il momento in stasi, aveva deciso di portare Mayfair a fare pipì.







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