Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

martedì 22 luglio 2014

Cornelius



"Cornelius", di Antonella Tomaselli (storia vera di Luca V., da "Confidenze tra amiche", numero 27, 2014)
Era una sera di metà aprile e avevo chiamato a raccolta le mie caprette. Dopo essersi abbeverate, si stavano ormai addormentando nel recinto. Ma non c’era Clarissa. Andai a cercarla, mentre le ultime luci si perdevano nel buio della notte che avanzava. Camminavo su e giù tra scarpate e piccoli pianori, dove non esisteva sentiero, accompagnato da Sisca, la mia intrepida shih tzu, che mi trotterellava vicino, sfiorando, di tanto in tanto, il fondo dei miei pantaloni. Il vento, lieve e frizzante, portava con sé il profumo del mare. Finalmente la scorsi: Clarissa era adagiata in un minuscolo avvallamento. Qui a Bonassola, in Liguria, il  territorio è meraviglioso e difficile. La capretta era sul ciglio di una scarpata molto ripida, ma io e Sisca riuscimmo a raggiungerla. Capii perché non aveva fatto ritorno insieme al gruppo: si era fermata per partorire un capretto. Lo presi fra le braccia e mi incamminai verso casa. Clarissa mi seguì. Sisca invece ci precedeva, in testa al nostro piccolo corteo. Lei andava di corsa, poi si voltava verso di noi, si fermava un attimo, ci raggiungeva e poi, di nuovo, via in velocità. Mi pareva un po’ nervosa. Non era da lei, solitamente tranquilla ed equilibrata. Pensai che fosse eccitata per la nuova nascita. La nostra piccola processione procedeva in quel modo bizzarro mentre i pensieri si affollavano nella mia testa. La sera è un po’ difficile: il voler ricordare e il voler dimenticare fanno a pugni. A volte vince la malinconia, a volte il sapore della libertà.
Fino a una decina di anni fa lavoravo come perito informatico per diverse industrie. Avevo una moglie bella da mozzare il fiato. Stavamo bene insieme. Un giorno ci trovammo coinvolti in un brutto incidente d’auto. Guidavo io, e lei era accanto a me. Ne uscimmo vivi, anche se piuttosto malconci. Ma in quell’incidente morì il nostro matrimonio. Mia moglie, dopo le cure in ospedale, intascò una bella somma dall’assicurazione e mi disse addio. Se ne andò così, a sorpresa. Un fulmine a ciel sereno. Per me. Mi sentii come un leone ferito, chiuso in una gabbia di dolore e rabbia, da cui era impossibile uscire. Lasciai il mio lavoro di informatico. Chi mi voleva bene cercava di scuotermi, ma era utopistico. Mia madre mi regalò una cucciola di shih tzu, mi ricordo che mi disse: “Vedrai che questa piccolina ti aiuterà a dimenticare. E ti aiuterà a ritrovare te stesso e la tua strada”. Non mi impressionarono certamente queste sue parole, ma la cucciola aveva bisogno di mangiare, di essere accudita, e questo già mi obbligava a uscire dal torpore  in cui ero piombato. Mi faceva sorridere, la piccolina, e mi inteneriva, con quel suo sguardo di attesa. La portai con me quando andai in Alta Savoia, per una vacanza di riflessione. Volevo silenzio e solitudine. Invece scoprii le capre. Le vidi un giorno: si inerpicavano svelte sui monti scoscesi. Mi spiegarono che erano caprette di una particolare razza, le “camosciate”. Consultai libri e allevatori. Il leone ferito cominciava a uscire dalla sua gabbia. Aggredii il nuovo interesse, passo per passo, come mi insegnava la mia preparazione informatica, ed eccomi qui, con una vita totalmente nuova. Ho venti capre e tre shih tzu, quella regalata da mia madre e le sue due figlie: Sisca e la sua sorellina. Porto le mie caprette negli uliveti, sulle scarpate, nei terreni boschivi, nelle vigne abbandonate: ovunque si debba ripulire dall’erba, dai rovi e dagli arbusti. Loro brucano tutto, e lo convertono in concime. Più ecologiche di così, non si può. Le mie tre shih tzu si divertono e si atteggiano a cani da pastore. Guadagno poco, ma di poco ho bisogno.
Lasciai i miei pensieri quando arrivammo a casa.
Sistemai capra e capretto al riparo. Sisca uggiolava. Feci giusto in tempo a dirle: “Cosa c’è che non va, piccolina?”, che già correva, silenziosa, nella direzione da dove eravamo venuti. Non mi preoccupai per lei, pensai che, stregata da una traccia intrigante, dovesse seguirla. Ricomparve una trentina di minuti dopo. Trascinava qualcosa con la bocca. Quando fu più vicino vidi che tratteneva un capretto per la collottola. Lo depositò ai miei piedi. Lo presi fra le mani: era nato da poco, sicuramente era figlio di Clarissa ed era forse precipitato dall’orlo della scarpata. Sapevo per esperienza che il piccolo non aveva possibilità di sopravvivere. I capretti devono assumere la prima poppata entro un paio d’ore dalla nascita altrimenti sono destinati a morte certa. Avvolto dal buio di quella notte senza luna, feci una carezza a Sisca, quindi presi il piccolino e lo riconsegnai alla sua mamma. Ma Clarissa lo rifiutò. Non lo riconosceva come suo figlio. Allora entrai in casa e lo adagiai vicino alla stufa accesa. Sisca seguiva attentamente ogni mio movimento, poi si avvicinò al piccolo e cominciò a leccarlo. Lui era inerme. Lei insistente. Si fermò, con la lingua penzoloni e il respiro corto. Un po’ di riposo e riprese. Glielo dissi: “Sisca, non ce la possiamo fare con questo piccolo”. Ma lei, arricciando un po’ un labbro, mi sorrise, e risoluta ricominciò a occuparsi di lui. Durante la notte mi svegliai più volte per controllare la situazione: il quadro rimaneva immutato. Era ormai l’alba quando trovai Sisca addormentata vicino al capretto. Lo avvolgeva con il suo corpo: acciambellata, il piccolo stretto a lei. Lui era ancora vivo. Gli accarezzai il musino e quando le mie dita gli sfiorarono la bocca, tentò di succhiarle. Corsi da Clarissa e cercai di mungere un po’ di latte, ma lei non collaborava. Mi precipitai in centro a Bonassola per cercare un negozio che vendesse latte di capra e un biberon. Al mio ritorno il piccolo si nutrì avidamente. Sisca era soddisfatta e a fine poppata, di nuovo, si prese cura di Cornelius. Sì, in quei pochi minuti, gli avevo dato un nome. Mi sembrava di buon augurio pensare positivo.
Sisca l’aveva salvato. Non lo lasciò mai. Nemmeno ora che ha superato i due mesi d’età ed è molto più grande di lei. Cornelius è cresciuto con il latte del biberon e le cure amorevoli della sua tata.
Mi fanno una tenerezza indicibile le sue orecchie lunghe, gli zoccolini, i suoi occhi d’ambra e cioccolato. Mi commuove quando concentrato succhia il latte, quando si assopisce dopo la poppata, quando accenna goffamente un saltello, quando mi invita al gioco. Mi allaga il cuore la dedizione della piccola Sisca per lui. Cornelius è per metà capretto e per metà cane: mi segue al piede anche quando camminiamo in centro o entriamo nei negozi o mi prendo un caffè al bar: ha imparato da Sisca. Quando lo chiamo corre da me. Come un cane, non sporca in casa. Se, mentre è distratto, io e Sisca ci allontaniamo di qualche metro, allora ci reclama con un dolcissimo ed esile belato. Cornelius è il miracolo di Sisca, e io ho una certezza: noi tre staremo per sempre insieme. E la nostra vita continuerà così, nell’assoluta libertà e nell’assidua meraviglia per la natura e per l’amore.

1 commento:

Rosa Russo ha detto...

Avevo letto la storia ma l'ho riletta. Ho provato la stessa emozione. È vero che gli animali ti salvano l'anima. Bellissimo racconto.