Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

mercoledì 2 luglio 2014

Mayfair e il mistero del lago

-tredicesima puntata-



9. La formula
6 gennaio 2001, Ginevra, ore 7.30.
Avevano preso il primo volo di quella mattina, alle 6.30 e durante il viaggio nessuno dei due aveva aperto bocca.
All’aeroporto svizzero furono prelevati in dogana da due funzionari di polizia che li scortarono in una saletta privata dove li attendeva il commissario Jean-Loup Montani.
Un tipo buffo. Piccolissimo, pelato con una finta aria gioviale e uno sguardo da duro autentico. Essendo figlio di un emigrato, parlava bene l’italiano, spiegò subito al giornalista.
«Mi auguro che abbiate fatto un buon volo, signori. Tra breve vi accompagneremo all’hotel dove potrete riposare e dove il dottor Tonolli riceverà il materiale che ha richiesto dall’Italia. Io ci tenevo a incontrarvi subito per mettermi d’accordo sul tipo di assistenza che vi attendete da noi.»
«Penso siate già a conoscenza del piano che abbiamo delineato a Parigi. Mademoiselle Mac Neely si presenterà in banca domattina, all’orario d’apertura. Si farà accompagnare nel caveau e ritirerà il contenuto della cassetta numero 7. Per nostra grande fortuna è una donna coraggiosa: si presta a fare da specchietto per allodole che, come abbiamo visto, più che allodole sembrerebbero uccelli rapaci. Il momento delicato sarà questo, quindi. Abbiamo bisogno che Bamboo sia aiutata e protetta da agenti sceltissimi perché rischia molto, non essendo oltretutto una professionista. Non deve capitarle nulla, insomma.» La voce di Carlo tradiva apprensione e tenerezza.
Allora un cuore ce l’ha, si disse la ragazza che, pur invasa da una gioia infinita, fece finta di nulla perché lui non si sentisse scoperto. Per conquistarlo avrebbe dovuto imitare Mayfair, e non sarebbe stato facile.
Montani stabilì un incontro al commissariato per il tardo pomeriggio e li fece accompagnare in albergo.
L’Hotel du Lac era un piccolo, vecchio, elegantissimo albergo. Di quelli che piacevano a Carlo, con la carta da parati a fiorellini un po’ fané, i mobili liberty, gli infissi di ferro battuto. Le camere, adiacenti e comunicanti, erano al secondo piano e si affacciavano su un piccolo giardino all’inglese.
Sul pianerottolo Bamboo sbadigliò con grazia orientale.
«Dormi un po’, ti chiamerò io quando sarà il momento. L’importante è che tu non ti muova dalla tua camera se non per venire nella mia e solo dall’interno, d’accordo? Ogni mossa falsa potrebbe essere pagata molto cara.»
Bamboo risbadigliò, sorrise e scomparve in camera.
Carlo depose Mayfair sul letto. La cagnolina grattò il copriletto con poca convinzione, come per farsi una cuccetta, sbadigliò e crollò sul fianco con un piccolo grugnito di piacere, vinta dal sonno.
Carlo la osservò sbalordito: se non si fosse messa a russare avrebbe potuto pensare che fosse morta sul colpo. Si rese conto poi, ripercorrendo sotto la doccia gli ultimi avvenimenti, che nessuno dei tre aveva dormito da almeno ventiquattr’ore. In più, durante il volo, Mayfair era stata nervosa, agitata. Probabilmente il rumore dei motori e l’atmosfera ovattata della cabina presurrizzata le avevano ricordato il primo, tragico viaggio dall’Inghilterra a quel cassonetto della spazzatura di Linate.
Le si sdraiò accanto, avvolto nell’accappatoio dell’albergo, con l’intenzione di rivedere tutti i suoi appunti. Ma dovette cedere, vittima a sua volta di un sonno irresistibile. Resuscitò quando il trillo del telefono lo fece sobbalzare strappandolo da un mondo senza suoni, da un vuoto senza sogni.
«Carlotto?»
Il suo Rolex segnava le 11.30.
«Ciao zia, dove sei?»
«Proprio qui sotto, nella hall di questo delizioso hotel, insieme con il dottor Viani. Possiamo salire?»
Carlo saltò giù dal letto come lanciato da una molla. Era furibondo e non lo mandò certo a dire a quella vecchia balorda.
«Si può sapere cosa ti è venuto in mente? Non stiamo giocando a “Guardie e ladri”: tornatene subito a casa.»
«A parte il fatto che sono dovuta venire a Ginevra per un motivo ben preciso, non era mia intenzione fermarmi più di un’ora, giusto il tempo di metterti al corrente di alcune notizie dall’Italia che pensavo potessero esserti utili. E, nello stesso tempo, mi sono permessa di pensare di poter approfittare dell’occasione per vederti e abbracciarti. Comunque, visto il tuo tono, non ne ho più voglia. Ciao caro.»
«Aspetta. Ero addormentato come un ghiro in letargo, sono stanchissimo, non riposo da ventiquattr’ore. Scusami e sali subito.» Mentre riappendeva udì bussare alla porta interna e, dimenticando di essere scalzo e in accappatoio, gridò a Bamboo di entrare.
«Il tuo telefono era occupato, così il portiere ha avvisato me dell’arrivo di un fax urgente per te da Parigi... sarà l’identikit di Mister X.»
«Sì, eccolo qua!» Lucia Guanzani entrò dalla porta principale sventolando il fax e lanciò un’occhiata indagatoria al nipote e a Bamboo.
Carlo fece finta di nulla e, dopo averli presentati, salutò Viani con una forte stretta di mano.
Lucia Guanzani si fiondò fra le braccia del nipote.
«Questa stupidina come sta? Proprio ieri ha telefonato Benni e mi ha pregato di fargli sapere come procede la guarigione di Mayfair. Lo chiamerai, vero?» gli domandò e baciò il cane che scodinzolava sul letto.
«Sta sempre meglio, per fortuna. Ora andiamo nel salottino. Abbiamo mille cose da dirci. Anzitutto, dov’è Guidone? Anche lui può essere riconosciuto da Mister X.»
Rispose Viani: «Infatti, per questo motivo ho preferito che ci lasciasse a Courmayeur e da lì abbiamo preso un taxi. Ci aspetta questa sera alle 18 nella piazza dei pullman.»
Carlo lodò la prudenza di Viani e passò a raccontare in dettaglio tutti i fatti di Parigi.
A un certo punto si domandò se lo sguardo totalmente rapito di sua zia e, soprattutto, il suo silenzio, fossero dovuti più alla sua esposizione - abbastanza avvincente, doveva ammetterlo - o alla curiosità nei confronti di Bamboo. Infine concluse che, per un motivo o per l’altro, quello per lei sarebbe stato un giorno da ricordare e da raccontare poi con massimo godimento nei salotti più esigenti.
Toccò poi alla zia e a Viani aggiornarlo sulle novità dall’Italia. «La cosa più interessante riguarda la mia presenza qui per chiarimenti, richiesti dalla polizia ginevrina, sull’omicidio di Gerti Mullausen...», esordì Lucia Guanzani.
«OMICIDIO?»
«Già. Omicidio. L’altro ieri mattina, verso le dieci, mi ha telefonato da Ginevra appunto, il commissario Pulin, della sezione Omicidi. Mi ha interrogato sui miei rapporti con un uomo, certo Friedrich Mullausen di Klosters - un paese di montagna della svizzera tedesca - trovato cadavere in una discarica, con in tasca documenti falsi e... femminili, a nome  di Gertrud Mullausen insieme con un mio biglietto da visita. Capite ora? “Faccia di teschio”, come la chiamava Carlo, in realtà era un uomo, morto ammazzato da un colpo di revolver in mezzo agli occhi.»
Carlo era talmente sbalordito da non sapere cosa pensare.
«Proviamo a lasciar decantare questa notizia, perché ora non riesco a trovare un collegamento logico con tutto il resto. Passiamo invece a osservare i nuovi elementi che abbiamo in mano. Il fax con l’identikit dell’assassino, per esempio», disse.
Spianò lo schizzo sul tavolino e, pur vedendo che tutti lo stavano guardando con attenzione, iniziò a descriverlo come fra sé: «Viso scarno, naso piccolo e aquilino, capelli grigio chiaro, folti e ondulati, bocca sottile. Mancano però alcuni dati basilari. Gli occhi, anzitutto. Il vecchio infatti, che stava dormendo o fingendo di dormire, li teneva chiusi. Bamboo ha fatto del suo meglio indicando un taglio d’occhi oblungo. Ma lo sguardo e il colore, fondamentali per l’identificazione, restano sconosciuti. In secondo luogo, la bocca che teneva appoggiata al palmo della mano. Supponiamo che sia sottile ma non sappiamo quanto, né se è piccola o larga, con gli angoli in su o in giù. Eppure... eppure sento di aver già visto questa faccia. E voi?»
Bamboo negò decisamente con il capo.
Viani e la zia, invece, sembravano dubbiosi.
«Sì, qualcosa. Qualcosa questa faccia mi dice, ma non riesco a capire cosa», rispose il giornalista e zia Lucia annuì.
«Procediamo con la nostra analisi tenendo sott’occhio questo ritratto.»
Carlo afferrò il piccolo, vecchio album di fotografie. Lo sfogliò piano: come gli aveva preannunciato Viani, si trattava del ricordo di una Prima Comunione, datato 1936 da una calligrafia svolazzante, tipica dell’epoca. Quasi tutte le immagini  erano state volutamente tagliate a metà. O meglio, il bambino in abito scuro, collaretta di pizzo e Vangelo fra le piccole mani, con precisa volontà era stato regolarmente separato da qualcuno o da qualcosa. Carlo lesse e rilesse il biglietto della governante Pinin che accompagnava l’album con la vana speranza di trovarvi un pur minimo aggancio con tutto il resto. Niente. Dovette quindi ammucchiare anche questi dati nel cervello con un senso di sconfitta.
Si accese un toscano e tornò a guardare il ritratto a matita dell’identikit e poi le foto dell’album, ancora il ritratto e subito dopo ancora le foto, e così via, ossessivamente.
«Beviamo qualcosa? Che ne dite?»
Bamboo raccolse le ordinazioni e le ripeté attraverso il telefono al bar dell’hotel. Abbandonato sul divano, Carlo liberava dalle belle labbra anelli di fumo come un capo indiano, senza partecipare minimamente alla vita e tanto meno alla conversazione degli altri. Pensava e ripensava a ogni dettaglio, continuando a fissare ritratto e foto e, se per un attimo si sentiva vicinissimo alla soluzione dell’enigma, immediatamente dopo ripiombava nel caos più totale dei suoi pensieri e, allora, ricominciava tutto da capo.
Decise di vestirsi per tentare di spezzare quell’assillo. Si alzò di scatto, con il volto cupo, sotto gli occhi degli altri tre, ora in silenzioso rispetto dei suoi pensieri.
Raggiunse il letto, accarezzò distrattamente Mayfair e recuperò sotto di lei i suoi pantaloni. Prese dalla valigia una camicia pulita, un paio di calze, un pullover, una cintura e si avviò in bagno. Indossò uno dopo l’altro gli indumenti senza nemmeno guardarli. Si abbottonò i pantaloni e, prima di chiudere la fibbia della cintura, automaticamente infilò le mani nelle tasche. Fu in quel momento che nella tasca destra ritrovò il fazzoletto scovato da Mayfair sotto la poltrona a dondolo di Antoine. Lo rigirò fra le dita. Era di mussola delicatissima: un classico fazzoletto da corredo maschile, piuttosto raffinato. In uno degli angoli lesse un grande monogramma, ricamato a mano in corsivo inglese: “MDM”.
E allora iniziò a capire.
Sfiorò delicatamente il tessuto mentre rivedeva con il pensiero l’identikit, le foto dell’album e tutti gli anelli del mosaico disporsi ordinatamente e nitidamente nella sua mente, tracciando l’unica soluzione possibile del mistero che, come aveva previsto, era di una semplicità disarmante.
Ora gli mancava un movente e ciò sarebbe stato molto più difficile, pur conoscendo le caratteristiche somatiche e la probabile identità di Mister X.
Fondamentale sarebbe stato il contenuto della famosa cassetta di sicurezza ma sapeva di dover ottenere al più presto il maggior numero di informazioni. Da solo non ce l’avrebbe fatta, non ce n’era il tempo. Decise di non parlare con nessuno della sua scoperta, sarebbe stato troppo pericoloso, ma avrebbe senz’altro sfruttato la disponibilità dei suoi alleati.
Rientrò in camera fischiettando.
«Carlo, che aria stupenda! I casi sono due: o hai gettato nel water i tuoi pensieracci o ti sei fatto una sniffatina.»
«Ma che dici, zia! Cosa vuoi sapere tu di sniffatine, poi... Ora ascoltatemi. Io e Bamboo ci occuperemo della faccenda della cassetta di sicurezza. Tu zia ti farai un weekend con Guidone a Klosters. Dovrete sapermi dire tutto - e tutto significa TUTTO- sulla famiglia Mullausen entro e non oltre dopodomani. Lei direttore prenda il primo treno per Como. Domani sera le arriverà il pezzo che deve - dico DEVE - uscire non oltre dopodomani.»
Lucia Guanzani, al colmo della gioia, era già al telefono per prenotare un taxi per Courmayeur.

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