Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

domenica 13 luglio 2014

Mayfair e il mistero del lago

-sedicesima puntata-



Mancavano ormai pochi minuti all’ingresso del valico, quando suonò il telefonino fissato al cruscotto di radica della Saab.
«Ciao Kurt... io... io non ho detto niente a quella vecchia.» La voce della donna era concitata e storpiata dalla cattiva ricezione del cellulare. L’uomo chiamato Kurt strinse ancora di più gli occhi da serpente.
«Quale vecchia, Bea?» domandò tentando di controllare l’inquietudine.
«Una vecchia italiana... ha fatto tante domande a zia Marlene su tutti voi. Ma io non ho parlato di te, lo giuro Kurt, lo giuro.»
«Lo so cara che di te mi posso fidare, altrimenti non saresti l’unica a conoscenza di questo numero di telefono. Lo so che mi conosci bene quando sono arrabbiato, vero Bea?»
Quella semiritardata della Bea era stata uno delle sue vittime preferite da ragazzo. Si era divertito per anni a terrorizzarla, a soggiogarla, a ricattarla. Era stata la sua complice segreta, e lo era tutt’oggi. Fingeva di essere muta per la paura di dire una parola sbagliata. Per Kurt-Occhi di Serpente lei era stata fondamentale. Lo teneva ciclicamente al corrente degli avvenimenti di Klosters e, come sempre, aveva fatto il suo dovere anche in questa occasione. Perfettamente.
«Brava Bea, sei proprio brava. Ora io vengo per premiarti. Quando hai detto che torna la vecchia italiana?»
«Domattina Kurt, domattina. Ma io non parlerò.»
«Non ti preoccupare, Bea. Domattina ci sarò anch’io, al solito posto, sai? Ti aspetterò là, con la vecchia curiosa. Ci divertiremo insieme.» Chiuse la comunicazione molto soddisfatto. La vecchia di Bellagio - perché si trattava certamente di lei - rappresentava l’insperata soluzione dei suoi problemi. Ecco perché, non appena intravide un allargamento della strada, ne approfittò per girare la sua Saab nella direzione opposta.
11. Manfredi De Mei
8 gennaio 2001, Milano, Clinica Santa Rita, ore 18.
«Si chiamava Manfredi.» La voce rotta della Pinin giungeva faticosamente dal letto bianco d’ospedale. Unica luce della stanza, il cono opaco dello spot sulla testiera («Deve riposare», aveva detto la giovane dottoressa Bertone a Carlo. «È ancora sotto choc e la teniamo tranquilla con una dose massiccia di sedativi. Cerchi di non stancarla troppo»).
«...è morto quella notte strana... una notte da incubo. Io ero ancora bambina. Mia madre era la cameriera personale della contessa, la signora Clara. Una donna delicatissima, malata. Un angelo, diceva mia madre. Il signorino Barnaba somigliava a lei. Il gemello invece, Manfredi, aveva dato sempre problemi alla famiglia. “È un sadico”, diceva mia madre, “farà morire la contessa”. Il signorino Manfredi esercitava la sua autorità con il personale di servizio facendosi legare i lacci delle scarpe dal vecchio giardiniere, rimandando duecento volte di seguito alla cuoca le pietanze che diceva di non gradire, facendo cambiare i pneumatici della macchina all’autista per poi ribucarli con un coltello sotto i suoi occhi. Seviziava gli animali... tutti gli animali. Non le racconto cosa fece a uno dei suoi cani perché è raccapricciante. E quando finalmente lo vide morto... “Era così scemo!” ha detto ridendo.»
«Ma che successe Pinin, quella notte?» Carlo vide nella penombra dilatarsi gli occhi della donna.
«I ragazzi avevano un istitutore. Si chiamava Papetti, professor Sandro Papetti. Era un giovanotto fresco di studi e molto bisognoso, assunto dal conte a tempo pieno perché provvedesse all’educazione dei gemelli. C’era la guerra e la famiglia s’era trasferita nella villa di Cuggiono. Il professorino sembrava stregato da Manfredi. Il ragazzo lo plagiava, lo manovrava a suo piacimento. Si diceva che il signorino ricattasse il Papetti perché questi aveva scoperto che faceva uso di oppio. Manfredi era minorenne, capisce? Così il professore lo assecondava nei suoi giochi perfidi e lo copriva davanti a tutti. Quella notte... oh Dio, quella notte... mia madre mi raccontò che trovarono nelle stalle il cadavere di un bambino di quattro anni. Il figlio del fattore. Era caduto da un’impalcatura del fienile, sicuramente coinvolto in un gioco finito male. Ne fece le spese il Papetti. Manfredi lo assalì gridando di averlo visto con il bambino nel granaio... “E’ un drogato, un assassino schifoso”, gridava trascinandolo sull’aia per le orecchie. I contadini assistevano muti, ma nell’aria l’odio si respirava. Volevano il colpevole, era chiaro, altrimenti avrebbero imbracciato i forconi. Il Papetti urlava di essere innocente, ma non bastò: Manfredi stesso lo buttò nel pozzo grande. Sembrava un sabba di streghe, un rito satanico. Dal fondo del pozzo giungevano i gemiti dell’agonia di quel disgraziato. E dopo il tuo complice, ora tocca a te, urlarono i contadini al signorino Manfredi. Formarono un cerchio attorno a lui e piano piano iniziarono a stringersi minacciosi. Ma non fecero in tempo a toccarlo: in quel momento arrivò il conte De Mei chiamato dal signorino Barnaba che, rischiando il linciaggio, aveva tentato invano di fermare quello scempio. “Spetta a me fare giustizia”, gridò il conte facendosi largo fra gli uomini. E così fu. Quando si trovò di fronte a quel suo figlio assassino, senza dire una parola, gli sparò nel petto. Questa è la storia di quella notte terribile che, per fortuna, io vissi soltanto nei racconti di mia madre.»
Carlo aveva saputo abbastanza. Poteva lasciar riposare la Pinin. «Mi faccia sapere se ha bisogno di qualcosa», disse alla dottoressa Bertone allungandole un biglietto da visita.
Quando varcò l’uscita della clinica erano le 19. Salì sulla vecchia Mini, recuperata dopo aver riconsegnato la Golf al deposito Hertz di Linate, e insieme al freddo della strada si sentì addosso una stanchezza mortale, nelle ossa e nella mente. L’ultimo giorno e mezzo era stato interminabile: ora desiderava soltanto un letto. Avrebbe obbligato se stesso a rimandare all’indomani qualunque pensiero su tutta la storia. Attraversò la città nel delirio del traffico più schifoso del dopolavoro milanese, ma fu premiato dalla scoperta miracolosa di un posteggio libero proprio davanti al portone di casa. Raggiunse il suo appartamento con gioia e, soprattutto, con la gradevolissima sensazione di essere atteso da Mayfair, che aveva lasciato come sempre avvoltolata nel solito pullover, davanti al caminetto prudentemente spento.
Si salutarono con l’entusiasmo di sempre: lui da uomo, con grattatine sul muso e sulla pancia di lei, lei da cane, con la codina impazzita e gli occhi brillanti di felicità.
Esplorò il frigorifero, tristemente vuoto, alla ricerca di qualunque cosa da bere e da mangiare. Sconfitto, decise di ordinare una cena cinese al take away di via San Marco.
«Chiang, sei tu? Sono Tonolli, via Appiani. Mi porti il solito, per favore?»
«Buonasera dottore, bentornato. Fra mezz’ora ti porto tutto. Hi hi hi...»
Quel cinese rideva sempre, beato lui. Il suo cervello fece un rapidissimo, irrazionale collegamento con Bamboo la quale, effettivamente, non era tutta cinese. E immediatamente il volto di lei apparve a Carlo come una visione di dolcezza e sensualità insieme, e gli venne la voglia di accarezzarlo. Trasalì a questo insolitissimo desiderio che allontanò subito con la stessa foga con cui si spogliò completamente, gettando uno ad uno ogni indumento nella cesta del bagno e raggiungendo quasi di corsa il getto rassicurante della doccia. Si lasciò scorrere addosso l’acqua alternativamente calda come pioggia tropicale, e poi fredda come una cascata di montagna, senza fare un gesto in più, solo godendo di quegli attimi di benessere. E quando finalmente ogni pensiero pericoloso scomparve, sentì tornare il vigore attraverso i muscoli, si lavò velocemente, si avvolse nell’accappatoio e raggiunse il soggiorno. Accese il caminetto e attese Chiang sulla sua poltrona preferita, Mayfair sulle ginocchia, con l’intenzione di ascoltare i messaggi della segreteria telefonica e di evadere il mucchio di posta che la Tilde gli aveva lasciato al solito posto, sul vecchio scrittoio dello studio. Aprì subito una lettera con la scritta “URGENTE PERSONALE”, che riconobbe di Viani, recapitata a mano assieme a una copia del giornale.
“Bentornato amico mio! Appena può dovrebbe chiamarmi, a questo numero di cellulare 333 717154. È nuovo, a scheda, perché il mio è troppo pericoloso. Ghezzi, come prevedevamo, da questa mattina mi sta alle calcagna.Vuole incontrarci al più presto, altrimenti minaccia di muoversi ufficialmente. Io ho preso tempo, ma non si potrà tirarla avanti molto. Gli ho detto che non so né dove lei si trovi né su cosa basa le sue informazioni né quando intende rientrare in Italia. L’articolo è formidabile, complimenti. Potrà giudicare lei stesso l’impatto della prima pagina dalla copia che troverà insieme a questa mia. Forse finiremo in galera, ma ne valeva la pena: abbiamo esaurito 50.000 copie nel giro di poche ore. Grazie e, spero, a presto”.
Vero, pensò l’autore aprendo la copia fascettata del giornale. Era una vera bomba. Ne fu soddisfatto anche se quella mattina si era completamente scordato dell’uscita del suo articolo. Lasciò il resto della posta e attivò la segreteria telefonica aspettandosi qualche sorpresa.
«Tonolli, sono Ghezzi e sarò brevissimo. Voglio al più presto delle valide spiegazioni o fra poco partirà un’azione giudiziaria nei suoi confronti per occultamento di prove. Sono stato chiaro?»
La puntualità del commissario comasco non si poteva negare. «Aspetta e spera», pensò con sincera incoscienza.
«Ehilà, sono Lini. Il tuo assegno è pronto, però il direttore vorrebbe vederti. Che si fa? Chiami tu? Il capo dice che ha fretta... sai com’è... Ciao.»
Carlo rispose con una pernacchia goliardica talmente sonora da svegliare Mayfair di soprassalto.
«Hallo Carlo, c’est moi, Bamboo. Sei arrivato bene? Io sono a casa e mi piacerebbe avere notizie tue e della petite Mayfair. Au revoir
Tentò di restare indifferente a quella voce un po’ roca, a quell’accento francese così sexy, ma effettivamente gli era molto difficile. Fu aiutato dalla quarta telefonata che arrivò come una molotov e gli incenerì qualunque altra sensazione.
«Buonasera Tonolli, lei sa chi sono, no? Lo ha pure dichiarato oggi, sulla prima pagina del suo giornaletto di quartiere.» Mayfair ringhiò a quella voce: una voce profonda e tagliente, per nulla stentata, giovanile e aggressiva, misurata nel ritmo pacato delle parole.
«...tuttavia temo di dover deludere le sue aspettative. Per ora non le anticipo nulla, ma non si allontani troppo da casa perché credo che ci sentiremo molto, molto presto.»
Smarrimento. Panico. Carlo si sforzò di capire dove avesse sbagliato e cosa potesse essere intervenuto a dare tanta sicurezza a Manfredi De Mei. E ora? Bamboo era in pericolo? Impossibile. Aveva visto con i suoi occhi partire l’elicottero dalla dogana svizzera e Damiens aveva assicurato che l’avrebbe fatta scortare a casa dai suoi uomini. Aveva sentito pochi minuti prima la sua voce, serena e rilassata.
Non gli rimaneva che attendere, ma con che animo?
Il suono del citofono lo fece sobbalzare e per un istante non ricordò di aver ordinato la cena cinese. Aprì a Chiang distrattamente e sbrigativamente.
«Buonasera dottore, che c’è? Sei pallido... hiii hiii hiii... non stai bene? E quello chi è?»
Al solito, fra i suoi piedi era apparsa Mayfair. «Non lo vedi? È un cane!»
«Carino! Quelli piccoli sono i più buoni.»
«Già, non disturba mai. Quanto ti devo?» Che noia! Con tutto quello che c’era in ballo gli mancava soltanto di far conversazione con Chiang.
«Il solito. Se vuoi te lo metto in conto. Io però intendevo buoni da mangiare... hiii...hiii.»
«Ma cosa stai dicendo? Sei matto? Levati dai piedi, ok?»
Carlo lo spintonò sul pianerottolo.
«Dottore, prego, non ti arrabbiare, prego...»
Chiuse la porta, appoggiò tutto in cucina, tornò alla poltrona e aspettò.
Come avrebbe potuto toccare cibo con l’ansia che quella voce gli aveva procurato? Guardava fisso il telefono come fosse qualcosa di animato, vivo eppure a lui ostico, con quel mutismo provocatorio. Per questo motivo sobbalzò quando il gelido oggetto iniziò a squillare. «Sì, pronto?»
«Carlo, donc tu est arrivé! Perché non mi hai chiamato? Hai trovato il mio messaggio?»
La voce di Bamboo lo tranquillizzò almeno sulla sua incolumità. «Ciao bella. Ora non posso stare al telefono, aspetto una chiamata... poi ti dirò.»
«Ma che c’è? Sei agitato, tu as quelque chose...»
Lui si irruvidì. «Ti ho già detto che non posso tenere occupato il telefono. Ti chiamo dopo.» Riattaccò senza aspettare risposta.
E immediatamente il telefono risuonò.
«Finalmente la trovo, Tonolli! Come sta Mayfair? Non so più nulla dalla sua preoccupante telefonata di capodanno. La aspettavo in studio, come mai non è venuto?»
Il professor Benni. Che fare? Doveva parlargli anche se avrebbe preferito spacciarsi per la segreteria telefonica.
«Buonasera Benni. Mayfair sta molto meglio. Pensavo di portargliela fra una settimana... ora mi scusi, ma ho molto da fare.»
«Effettivamente ho sentito parlare di lei. Anche il telegiornale ha segnalato il successo delle cronache sui delitti di Bellagio firmate “Mayfair” su quel giornale... come si chiama? “La Tribuna del Lario”, mi pare. Ho intuito subito, ovviamente, che si trattasse di lei. Ma è tutto vero?»
«Più che vero, purtroppo. Anche in questo momento, se potessi dirle...»
«Lasci stare, avremo tempo più avanti. Piuttosto è inutile ripetere che Mayfair ha bisogno al più presto di una lastra e di una visita. Veda lei. Comunque, quando il cane riprende a camminare, elimini totalmente le fasciature.»
«Grazie, lo farò e la chiamerò appena possibile.» Carlo tirò un sospiro di sollievo e riagganciò. Non aveva voluto deludere Benni, ma le fasciature lui le aveva già buttate, proprio il giorno prima. Considerati i miglioramenti di Mayfair aveva deciso di correre il rischio, così, a naso. Col tempo aveva imparato a capire la cagnolina meglio di chiunque altro. La accarezzò, appoggiò la testa alla poltrona e nemmeno si accorse di piombare di colpo in un sonno riparatore.

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