-diciottesima puntata-
9 gennaio 2001, Klosters, ore 9,30.
Lucia Guanzani fu fregata una volta di più dalla sua curiosità da gatto. Sapeva di non doversi fidare di se stessa, eppure ci ricadde. Mentre, in casa Mullausen, sfogliava gli album di fotografie in bianco e nero dove l’unico dato che le potesse saltare agli occhi era la sostanziale differenza fisica e somatica del famoso Kurt rispetto a tutto il resto della famiglia (lui alto, bruno, elegantissimo; gli altri tarchiati, biondissimi, montanari), venne attratta irrimediabilmente dal comportamento della Bea. La donna, che la osservava con una fissità paranoica quando sapeva di non essere veduta dalla vecchia Mullausen, gesticolava come a dire: «So io cosa mostrarti di veramente interessante... Vieni con me senza farti capire da lei... vieni...vieni.»
Fu così che, nonostante le proteste di Guidone, Donna Lucia seguì quella disgraziata fino alla “tana del diavolo”. Veramente capì di essere in trappola subito prima di affrontare la salita a bordo della funicolare. La stessa visione della Saab nera posteggiata al limite del bosco sembrava un presagio sinistro.
«Dove ci porti cara? Non mi pare una buona idea attraversare il bosco in questa stagione. Io poi non ho le scarpe adatte. Che ne pensi tu, Guidone?»
«Se me lo consente, io l’avevo detto di non seguire questa pazza. Non credo che il signorino Carlo sarebbe d’accordo, Donna Lucia, né tanto meno...» Ma Guido non riuscì a terminare la frase. Bea, con un’agilità e una forza inaspettate, si girò e gli sferrò un calcio sotto il mento. Cadde senza un lamento, riverso nella neve fresca. Senza nemmeno guardarlo la donna afferrò Lucia Guanzani, paralizzata dal panico, le legò i polsi con una grossa fune e la spinse sul carrello. Quindi attivò la carrucola.
Sulla sommità, alla fine del cavo di trasporto, la nobildonna poteva vedere stagliarsi in controluce la figura eretta di un uomo alto e, man mano che il trabiccolo si avvicinava, il suo terrore aumentava. «Mi sta bene, proprio bene. Ora morirò come il povero Guidone, su questa montagna maledetta.» Pensieri convulsi le si ammassavano in testa senza ordine e poi le invadevano il cuore che li traduceva in battiti sconnessi e soffocanti.
De Mei l’aiutò a scendere dalla funicolare che subito rispedì giù, alla Bea.
«Bene arrivata madame. Ha fatto un buon volo? Mi dispiace per il suo fedele autista, ma non c’era posto per lui sulla funicolare, capisce?»
Donna Lucia era totalmente priva di salivazione e pensò di trovarsi di fronte a un ectoplasma. «Barnaba De Mei! Ma lei non era morto?»
«Certo, Barnaba è morto. L’ho fatto ammazzare io. Be’, non mi guardi così, da un lato penso di avergli fatto un favore. Io sono suo fratello Manfredi. Da piccoli anche maman stentava a riconoscerci. Ma la prego, si accomodi, avremo tutto il tempo di parlare. Prima però dobbiamo fare una telefonata a suo nipote. Potrebbe essere in pensiero, non crede?»
Era arrivata anche la Bea. Sguardo da cane braccato, un mormorio intraducibile a fior di labbra: «Ma tu... tu non sei...» Non riuscì a finire la frase. De Mei, senza una parola le sparò, proprio in mezzo agli occhi. Lucia Guanzani rantolò e per l’orrore si coprì il volto con le mani legate.
«Non faccia così. Non serviva più e ciò che non è utile si elimina.»
L’interno del rifugio era caldo come un forno. Lucia Guanzani si sedette sulla panca in fondo alla stanza per trovare sostegno al tremore che le aveva preso le gambe. Non si trattava certamente né di un gioco né di uno scherzo di cattivo gusto. Sarebbe finita male, anzi malissimo. Questo assassino avrebbe ricattato suo nipote per ottenere ciò che voleva, ma poi li avrebbe fatti fuori entrambi, come Guidone e la Bea.
La donna non poteva sapere che in realtà Guido non era affatto morto e che, proprio in quel momento, stava riprendendo a fatica conoscenza, aiutato dal fresco della neve a diretto contatto della sua nuca.
«Carlo, non ti spaventare, sono io... sto bene...» La voce stentata di sua zia fu subito interrotta da un’altra, che riconobbe sobbalzando.
«Buongiorno Tonolli, credo sia meglio non perdere tempo in preamboli inutili.»
Carlo avviò contemporaneamente il vivavoce e il registratore e fece cenno alla Tilde di non fiatare.
«Allora vieni al sodo. Cosa vuoi?»
«Ho detto che non ho voglia di perdere tempo!» L’uomo gridava ma ciò non impedì a Carlo di percepire sul fondo un gemito di sua zia.
La Tilde dovette premersi ambedue le mani a pugno sulla bocca per non urlare, mentre Mayfair dal suo grembo ringhiava come se si fosse trovata di fronte a un mostro visibile soltanto a lei. E Carlo mollò su tutti i fronti. L’affare era più grande di lui: non poteva sopportare nemmeno l’idea che a sua zia fosse torto anche un solo capello.
«Cosa devo fare?»
«Così va bene... È molto tempo che non ti confessi caro? Non devi perdere le buone abitudini. Conosci Strasburgo? Ti aspetto domani alle 19 in punto nella cattedrale. Vai al confessionale di père Jean-Michel, l’ultimo sul lato sinistro, proprio di fianco all’altare maggiore. Attenzione a non fare uno dei tuoi scherzi idioti. Devi venire solo e, ovviamente, con il dossier.»
La comunicazione si troncò, lasciando spazio a un silenzio pesante come un macigno che né lui né la Tilde osavano spezzare.
Mancavano soltanto trentasei ore circa all’appuntamento con l’assassino e Carlo non sapeva davvero cosa fare. Senza l’aiuto della polizia sarebbe stato molto difficile uscirne vivo, questo almeno gli era chiaro.
Finalmente la Tilde parlò, congiungendo le mani come in preghiera: «In che pasticcio s’è messo, dottore? E ora cosa farà?»
«Non lo so... Prevedo una fine drammatica di tutta questa vicenda e ho paura più per mia zia che per me.» Si disse ancora che a questo punto non avrebbe potuto escludere la polizia, a costo di venire arrestato. Lo stesso Viani, nel suo biglietto, aveva espresso la sua difficoltà a prendere ancora tempo con Ghezzi. Già, Viani. Gli venne in mente di non averlo chiamato al nuovo numero di cellulare. Decise di farlo e andò a cercare la sua lettera sullo scrittoio.
«Messaggio gratuito. L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.» E grazie tante. Decise di rischiare fino all’ultimo e di prendersi ancora mezza giornata di riflessione prima di chiamare il commissario.
La stufa militare si stava spegnendo lentamente. Giusto in tempo, pensò De Mei indossando il cappotto di cammello. Lucia Guanzani si alzò per seguirlo. «Andiamo a Strasburgo?» la sua voce tremava ancora.
«Io vado a Strasburgo. Lei continua il soggiorno in alta montagna. Per l’eternità.»
La sua risata stridente era un po’ satanica ma la vecchia signora decise di non cedere, e fece appello a tutto il suo self control. «Troppo gentile. Sono una vera appassionata.»
«Le lascio il mio rifugio a disposizione per tutta la vacanza. È tranquillo. Anzi, tranquillissimo, irraggiungibile da anima viva. Unico problema, il rifornimento di legna per la stufa è terminato proprio ora... pazienza. Fra circa due mesi sarà primavera. Addio madame.» De Mei strappò di netto i rudimentali collegamenti elettrici, poi uscì, sbattendo il portoncino alle sue spalle. Non udendo lo scatto del chiavistello, Lucia Guanzani pensò che l’assassino non ritenesse necessario rinchiuderla. Raggiunte le pendici di quel picco sconosciuto, avrebbe sicuramente distrutto la funicolare, così lei sarebbe stata abbandonata lassù, sola, in attesa di una fine orribile.
In quello stesso momento Guidone era ancora supino nella neve. Ma nonostante stentasse a riprendere la totale lucidità per il dolore lancinante alla base del collo, riuscì a captare il rumore della carrucola in discesa e pensò bene di fingersi morto. Il sangue uscito dal mento ferito dallo scarpone della Bea formava una scenografica macchia sul candore del terreno sotto la sua testa e avrebbe aiutato senz’altro la credibilità della scena. De Mei, infatti, non spese più di una breve occhiata nella sua direzione. Scese agilmente dal cassone della piccola teleferica, si accucciò vicino a una scatola di metallo chiusa da un lucchetto e la aprì scegliendo con meticolosità la chiave giusta da un enorme mazzo appeso a una catena d’oro legata alla cintura. Poi premette un pulsante rosso all’interno, rimanendo in attesa del botto che dopo qualche istante fece saltare l’intero sistema di cavi del marchingegno.
Guidone dovette controllare molte emozioni: quella inimmaginabile di rivedere in vita e in ottima salute Barnaba De Mei, l’altra inattesa e più che altro fisica, dell’esplosione e, l’ultima, più inquietante, dell’incertezza sulla sorte di Donna Lucia. Ma ce la fece, e ne fu orgoglioso quando finalmente udì allontanarsi la Saab dalla radura sottostante. Per maggior sicurezza aspettò ancora qualche minuto, poi si alzò sulle gambe incerte anche per il gran gelo incamerato nel tempo dell’incoscienza. Sperò che il cellulare della Mercedes funzionasse, ma restò deluso. La gola alle pendici di quella vetta estrema era totalmente isolata. Si tastò la nuca dolorante. Forse, cadendo, aveva picchiato la testa contro un masso o forse era semplicemente l’effetto di ritorno del calcio al mento. Stava male, ma non aveva scelta. Doveva raggiungere subito un centro abitato per trovare aiuto. Entrò nella vettura, accese il motore e posizionò la levetta del riscaldamento al massimo. Tremava come una foglia e sentiva la febbre salire come un’onda bollente in tutto il corpo. Avviò piano la Mercedes sulla stretta discesa a valle. Immaginò Donna Lucia imprigionata da quella strega della Bea. Ma allora perché De Mei avrebbe fatto saltare la funicolare? La immaginò morta e sentì una fitta al cuore. Doveva fare presto, doveva chiamare qualcuno.
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