-ventesima puntata-
10 gennaio 2001, Strasburgo, ore 17.
Pensò che avrebbe voluto essere in vacanza, magari con Bamboo. Era arrivato all’albergo mezz’ora prima, accolto dalle mille piccole luci della città all’imbrunire, come un presepe mitteleuropeo. E, per un attimo, la scenografia reale dell’architettura alsaziana e l’atmosfera natalizia che non si decideva a lasciare i balconcini dalle finestre decorate, le vetrine di dolcetti e souvenirs, gli occhi stellati dei bambini per strada, gli fecero scordare lo scopo drammatico che lo voleva lì. Seppe dalla signora cotonata che lo accolse alla reception che Strasburgo era una delle città europee con la più forte tradizione del Natale. «Durante le feste, la città si trasforma in un gigantesco albero di Natale, in un parco giochi per tutti i bambini del mondo.»
Già. I bambini. Disteso sul letto con la coperta di piumino della stessa fantasia della tappezzeria di seta, Carlo ammise che l’idea dei bambini gli era dolce, da sempre. Ne avrebbe desiderato uno suo? Se lo era domandato più volte e la risposta ogni volta era sì. Ma non al prezzo di sopportare la monotonia familiare e la convivenza con una donna. Insomma, avrebbe voluto essere semmai un ragazzo padre.
Accarezzò Mayfair accucciata al suo fianco. Si guardarono. Lei sembrava intuire ogni suo pensiero. Per esempio, da quando Bamboo l’aveva baciato (o era stato lui a baciarla? Sicuramente no, per carità), lei sembrava sulle sue, rabbuiata. Se ne stava in disparte, seguiva la Tilde passo passo, guardando Carlo quasi di nascosto con aria mesta e delusa. Ciònonostante, lui non l’aveva voluta lasciare nemmeno questa volta. «Ci sono io, dottore. Non si preoccupi, si può fidare, no?» La Tilde aveva anche provato a insistere, ma non era una questione di fiducia, e per fortuna la donna pareva averlo capito. Semplicemente, Carlo sapeva che Mayfair non poteva vivere senza di lui. Doveva sempre essere a pochi metri da lui, o in attesa in una camera d’albergo, purché fra le sue cose, i suoi abiti, il suo odore.
Mayfair non era un problema.
«Sei ancora arrabbiata, piccola strega?» Le strinse il muso fra due dita. «Quella donna non è niente per me, lo sai. Mi sembra anche un po’ suonata. Cosa mi vuoi dire con quello sguardo? Che ce l’ho sempre in mente? Balle. Per una volta non hai capito niente. Finita questa storia ce la leveremo di torno, promesso.» Mayfair si liberò dalle sue dita e sbadigliò, per nulla convinta.
Dalla piazza vicinissima, Carlo sentì il suono delle campane battere la mezz’ora. Pensò all’incontro che lo attendeva e si sentì assalire dall’ansia. Il minimo errore gli sarebbe costato troppo. Afferrò il telefono e chiamò Milano.
«Hotel Diana, buonasera.»
«Mademoiselle Mac Neely, per favore.»
«Ciao Carlo. Comment ça va? Hai trovato mon cadeau?»
«Un regalo per me? No.»
«Ho messo un pacchettino dentro una tasca del tuo loden.»
«Aspetta. Vado a vedere.»
Effettivamente, nella tasca sinistra del loden, Carlo trovò un piccolo involto di carta rossa.
Lo aprì. Conteneva una catenina d’acciaio leggerissima con una medaglietta fatta a cuore incisa da una parte e dall’altra. Da un lato appariva in corsivo la scritta “Mayfair”, dall’altro il suo numero di cellulare.
Ritornò al telefono.
«Grazie. Mayfair sarà felice di possedere finalmente una medaglia di riconoscimento. Devo dire che, nonostante la forma a cuore, non è leziosa. Proprio come piace a noi. Io sto per andare là, lo sai... ecco volevo dirti che, se qualcosa non funzionasse, vorrei che pensassi tu a Mayfair.»
«Oh no chérie, non dirlo...»
«Giura che penserai tu a Mayfair e non contraddirmi.»
«Lo giuro, sì.»
«Così va bene. Adesso spiegami perché ieri mi hai baciato.»
«Veramente sei stato tu a baciare me.»
«Allora sei davvero matta.»
«Oh no chérie, è proprio così. Comunque vorrei essere lì perché tu mi baciassi ancora.»
Ora Bamboo si preparò alla solita reazione violenta. Invece, sentì chiaramente la voce bassa dell’uomo della sua vita sussurrare: «Moi aussi.»
Carlo riappese la cornetta del telefono come fosse infuocata. Ma cosa le aveva detto? Mayfair lo fissava con compatimento (il tono di voce di Carlo era stato inequivocabile).
«Ok, non sono fatto di acqua. Sarà un’avventura come un’altra e, attenzione... il tuo parere non è richiesto. Ora vado e spero di tornare presto. Ciao.» Le infilò al collo la nuova catenina che scomparve subito fra le volute seriche del pelo, la baciò sulla testa e uscì.
Scese le scale con calma. Aveva ancora un po’ di tempo. Si fermò alla reception dove la stessa signora cotonata che l’aveva ricevuto gli sfoderò un grande sorriso.
«Madame, ho lasciato il mio cane in camera. Se fra tre ore non sarò di ritorno si metterà in contatto con lei mademoiselle Mac Neely per venirlo a prendere al più presto.»
Poi non ebbe più scampo: dal caldo confortante dell’albergo si trovò nel gelo della strada che lo investì fin dentro alle ossa.
La cattedrale lo aspettava proprio dietro l’angolo: poteva intravederne le guglie dietro i tetti spioventi delle case da fiaba allineate lungo la breve via di acciottolato.
Respirò a fondo tentando invano di calmare i battiti in accelerazione del cuore quando affrontò il sontuoso ingresso del tempio. Buttò un’occhiata all’orologio: le sei e cinquantacinque. Si portò sulla sinistra della navata e contò i confessionali. Quattro. L’ultimo, il suo, proprio di fianco all’altare maggiore. Lo raggiunse senza nemmeno far caso allo splendore della basilica, né gli passò per la mente di controllare quanta gente vi si trovasse. Il prédieu era libero, naturalmente. S’inginocchiò davanti alla grata, dietro la quale si spalancò immediatamente la piccola imposta di legno antico.
«È in perfetto orario, Tonolli.»
Al tono di quella voce, l’ansia di poco prima si trasformò in rabbia incontenibile. Carlo avrebbe spaccato a pugni tutta la cattedrale. «Come sta mia zia?»
«Benone. Hai portato tutto?»
«Prima voglio vedere mia zia.»
«A suo tempo, non c’è fretta. Davanti a te, all’altezza del tuo basso ventre, c’è una fessura orizzontale. La vedi? Spingi dentro la busta.»
«Ripeto: prima voglio garanzie sullo stato di salute di mia zia.»
«Senti bello, come vedi, al contrario di quello che hai scritto sul tuo giornaletto, sono io a condurre la danza. Io voglio garanzie che tu non ti sia fatto seguire dalla polizia. È chiaro? Tu non puoi fare altro che adeguarti... dammi la busta. Dalla stessa feritoia ti passerò la mappa per recuperare la vecchia.»
I fori disposti a croce della grata svelavano il profilo grifagno di De Mei. Carlo non aveva scelta. La semioscurità del confessionale gli impediva di capirne la morfologia. Non aveva visto porte sul davanti, quindi doveva essere raggiungibile dai monaci direttamente dalla sagrestia attraverso una porticina, come a volte accadeva nelle vecchie chiese.
Tastò con la mano la fessura orizzontale.
«Che stai aspettando?»
Carlo non rispose. Infilò la busta ma l’apertura era leggermente più stretta del volume del plico, così fu costretto a spingerlo dentro con due dita. E fu la sua fortuna. Avvertì il contatto gelido della canna di un silenziatore proprio nel momento in cui la busta cadde all’interno del confessionale, e allora si gettò all’esterno più in fretta che poté. Crollò di schianto sul fianco sinistro ma nello stesso tempo sentì un bruciore fortissimo all’altezza dell’anca destra.
«Mi deve aver beccato», pensò.
Si alzò a fatica. Ora sentiva dolore e qualcosa di caldo che gli colava fino all’inguine. Tentò di raggiungere la porta della sagrestia. Chiusa. La affrontò a pugni e spallate. Vide una donna arrivare alle sue spalle, poi cadde fra le braccia del monaco che in quel momento, finalmente, aprì la porta.
«Qu’est-ce que vous voulez?»
Anche la donna entrò. Era alta, sulla quarantina, capelli biondi e ricci. «Agente Mantovani.»
«Faccia presto... presto. C’è solo lei?»
«Ovviamente no. Ogni uscita è controllata.»
«Mais alors, qu’est-ce que vous voulez?»
«Père, s’il vous plaît, où est l’entrée du confessionnel de père Jean-Michel?»
«Là bas, a gauche. Mais qu’est-ce que vous voulez faire?»
Carlo non lo ascoltava più. Seguito dalla donna poliziotto, raggiunse zoppicando il fondo del corridoio indicato dal religioso e svoltò a sinistra. Davanti alla prima delle porticine dei confessionali giaceva il corpo senza vita di un vecchio monaco. In mezzo agli occhi, precisissimo e nitido, il foro di una pallottola.
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