Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

lunedì 28 luglio 2014

Mayfair e il mistero del lago

-ventiduesima puntata-



13. Frank Nicastro
12 gennaio 2001, Ginevra, ore 11.
Jerôme aveva sempre amato i fiori. Curava il suo carretto pieno di vasi multicolore come se fosse un giardino. E soffriva davvero ogni volta che si trovava a comporre uno dei suoi famosi bouquet: mentre sceglieva i boccioli più belli, parlava sottovoce, apparentemente con se stesso, ma nel cuore a quei suoi unici amici dai quali di lì a poco avrebbe dovuto separarsi. Sapeva di essere considerato un po’ tocco, ma ne rideva. Lui, almeno, conosceva la serenità. Era famoso in tutta Ginevra, Jerôme, per i suoi bouquet. Ne stava proprio preparando uno specialissimo per un giovanottone timido, allampanato e innamorato, quando lo vide. Lui, così distratto dal suo mondo di profumi e di dolcezze, in quell’uomo distinto, anziano ma dritto sulla persona, riconobbe la malvagità. Perché, nonostante il feltro calato sul viso, Jerôme intuì i suoi occhi cattivi e le sue labbra nervose. Sotto al braccio, come uno straccetto, l’uomo teneva un cucciolo terrorizzato. Non poté fare a meno di seguirlo con lo sguardo dall’edicola sul lungolago fino a una grande auto con i vetri neri sulla quale salì, gettando il piccolo animale sul sedile posteriore. Gli occhi disperati di quel cane gli s’impressero indelebilmente nell’anima e, per una volta, Jerôme dimenticò i suoi fiori.
«Allora, se capisco bene, nella fretta non ti sei accorto che mancano alcune cartelle e un dischetto della formula.»
Frank Nicastro parlava lentamente, lisciandosi di tanto in tanto i baffetti impomatati. E parlando, lasciava vagare lo sguardo dalla scrivania a qualche punto indistinto dell’enorme ambiente al pianterreno della sua villa, isolato acusticamente dal resto del mondo da una pesante boiserie.
De Mei aveva già potuto notare che Nicastro non guardava mai negli occhi i suoi interlocutori. Un uomo sui sessant’anni, piccolino, magro, quasi emaciato, rinsecchito dal fumo di Gauloises senza filtro perennemente accese fra le labbra bluastre.
Eppure era l’unica persona di sua conoscenza in grado di terrorizzarlo. De Mei provava un vero panico alla sola idea di doverlo vedere.
«Però, per precauzione, s’è portato via il cane. Avete capito, ragazzi? Il cane.»
Al contrario del capo, i quattro uomini presenti sembravano appena usciti da una gara di culturismo, gli sguardi ottusi in attesa di un cenno. Sicuramente abituati a non pensare, né a porsi domande. Disinteressati a tutto se non alla violenza fine a se stessa.
Nicastro guardò nell’angolo fra il mobile bar e l’enorme schermo panoramico della televisione, in direzione di Mayfair, ritta sulle quattro zampe e tremante come una foglia.
Mayfair tremava così da ore. Tremava da quando non aveva più sentito Carlo vicino, da quando era sparito ogni riferimento a lui, da quando aveva percepito altri odori e mani sbrigative senza dolcezza.
I cani non possono esprimersi a parole. È forse per questo motivo che sentono tutte le emozioni amplificate, nel bene e nel male. Da ore la cagnolina non mangiava, non beveva e non dormiva per l’agitazione e la paura. Le pupille di carbone sembravano dilatate in cerca di qualunque cosa riferibile al suo amico. Le orecchie diritte, tese nell’ascolto di ogni rumore, nella speranza di risentire quella voce bassa, triste e sua.
Il silenzio era caduto nella stanza come la lama di una ghigliottina. Nicastro si alzò dalla poltrona, felpato come un felino, raggiunse Mayfair nell’angolo e, improvvisamente, quasi che un motore dentro di lui avesse aumentato al massimo i giri, la afferrò per la collottola e corse a sventolarla come un pupazzo sotto il mento di De Mei.
«Guarda... Guarda disgraziato, cosa me ne faccio io di questa bestia: ora la do in pasto ai miei dobermann, hai capito? Così non hai più nemmeno la possibilità dello scambio.» Gridava. Aprì la porta finestra e gettò fuori la cagnolina, nell’erba gelata del prato.
Frank Nicastro richiuse le imposte e si girò ancora verso De Mei. Lo schiaffeggiò dal basso con il rovescio della mano anellata da un grosso solitario che striò di sangue la faccia del vecchio.
«Tu mi hai preso in giro e pagherai. Dopo due anni che si sta progettando questo piano nel minimo dettaglio, dopo che si è mobilitata tutta la Famiglia, dopo i rischi corsi e i soldi investiti in quest’impresa, tu vai a perderti con il primo cretino di giornalista che vuole fare il Poirot di provincia.Tu credi di poter ricattare la polizia di mezza Europa con una cagnetta zoppa in cambio della formula più rivoluzionaria del secolo! E meno male che, almeno, non ti sei fatto seguire fin qui. Sei riuscito a seminarli nella cattedrale, per fortuna tua, altrimenti avresti messo anche me nella merda, o sbaglio?»
Per una frazione di secondo, gli occhi di De Mei incontrarono quelli di Nicastro: due punte di spillo, gonfi, porcini, senza un’espressione precisa, impressionanti.
«Toglietemelo di torno, ragazzi. Levatemelo dalla vista o lo ammazzo io con le mie mani.»
«Stai sbagliando Frankie, lui farà tutto per quella dannata bestia», De Mei tentò l’ultima carta. «Dammi un’altra possibilità.»
«Non farmi ridere, idiota. Devi solamente sperare che questa vicenda riesca a finire qui. Quella formula, ormai, l’ho data per persa, come te. Anche se per ora, forse, mi servi vivo. Ma spero per poco.»
L’erba era fredda, macchiata a tratti di chiazze di brina gelata. Mayfair era caduta dal suo volo dentro un’aiola di piante grasse striscianti, ormai secche ma ancora sufficientemente morbide da attutirle l’atterraggio. Era comunque stordita, infreddolita e soprattutto disperata. Quando i quattro dobermann di casa le si avvicinarono ringhiando, restarono piuttosto delusi e demotivati ad attaccare quel piccolissimo loro simile di sesso femminile, acciaccato, ancora cucciolo e che, per di più, si era girato sulla schiena offrendo il ventre, in segno di resa totale.
Così il branco si limitò ad annusare qua e là Mayfair e decise, probabilmente, che la piccolina era troppo indifesa. E guaiolando, si risparpagliò in giardino, abbandonandola a una fine che, per l’istinto animale, era sicura.
Lei, invece, era ostinatamente spinta a sopravvivere dall’amore per Carlo. Non avrebbe potuto non rivederlo. Tutto il suo corpo vibrava alla ricerca di quegli occhi grigi, di quel grembo amico, di quel posto caldo sul suo cuore, sotto al loden. Rimasta sola, si rialzò e, sempre tremando dal freddo e dalla paura, seguì il sentiero di beole, piano piano, con quella sua strana andatura da soldatino. Nessuno la notò. Indisturbata, arrivò fino in fondo al giardino, al grande cancello di ferro battuto. Calcolò prudentemente l’ampiezza delle inferriate uscendo prima di tutto con le due zampe anteriori, poi con la testa, e infine sgusciò fuori sul bordo del vialone. Si accucciò contro il paracarro proprio di fianco all’ingresso della villa. Il suo cervello di cane la informava che questo era il momento di restare in attesa. Lui sarebbe senz’altro venuto a prenderla. Per un bel po’ nessuno la vide. Il passaggio sul controviale era notevole, sia di persone che di macchine. Ma troppo spesso la fretta non permette di vedere nulla oltre il proprio naso. Mayfair, invece, guardava tutti attentamente. A un tratto sussultò per un uomo alto e magro con un cappotto scuro che stava attraversando la strada proprio verso di lei. Ma quando lui la sfiorò senza vederla, le cellule del suo cervello non reagirono. No. Non era Carlo. Si rincantucciò di nuovo contro il paracarro, un po’ più triste ma non per questo sfiduciata che lui prima o poi sarebbe arrivato.

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