Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

mercoledì 30 luglio 2014

Mayfair e il mistero del lago

-ventitreesima puntata-




12 gennaio 2001, Strasburgo, ore 13,30.
«Se lei non fosse così conciato, Tonolli, per quanto mi riguarda, sarebbe già in galera.» Il commissario Ghezzi si appoggiò con le mani al letto di Carlo. «Mi dica: a cosa le è servito muoversi da solo? A finire all’ospedale (e, per sua fortuna, non al cimitero!), a far rischiare la pelle ai suoi “complici” e a perdere il suo cane. Non le nego di aver sottovalutato la vicenda di Bellagio, d’altra parte come avrei potuto capire se lei si affannava tanto a nascondermi le prove? E lei, Viani? Oggi il suo giornale sarà tornato alla minima tiratura, immagino.»
Viani non rispose. Sembrava interessatissimo alla punta delle sue scarpe e se avesse potuto fischiettare, l’avrebbe fatto.
«Viani, non c’entra niente. Non sapeva niente.»
«No, Tonolli. Io sapevo. Lei ha soltanto evitato di comunicarmi la sua scoperta dell’assassino per non mettermi in pericolo.»
«Finitela con questi minuetti. Non appena Tonolli starà in piedi, ci ritroveremo in questura. A proposito, il vostro editore avrà delle belle grane per tutta questa storia, potete scommetterci. Vi consiglio di attivarvi al più presto per cercare lavoro.»
«Visto che le sue famose truppe speciali si sono lasciate sfuggire De Mei nella cattedrale, che programmi ha ora?»
«Non ci speri, Tonolli. Non faccia il furbo e abbassi la cresta. Da me, lei non saprà mai più niente di ciò che riguarda le indagini di questo caso. Arrivederci.»
Ghezzi uscì sbattendo la porta.
«Vuol dire che non sanno cosa fare. Di De Mei s’è persa ogni traccia. E Mayfair... ormai sarà...» Carlo non riuscì a finire la frase.
«Io credo invece che il cane gli serva, finché almeno non recupera il resto della formula. A questo punto se ne sarà accorto che manca metà del materiale!»
«E allora? Cosa pensa che possa fare? Tentare uno scambio? De Mei sa benissimo che la polizia è al corrente di tutto e può immaginare che la formula non è più nelle mie mani. Provi a pensare se è credibile che per un cane storpio Ghezzi possa cedere. No. È finita. La cosa non mi consola, ma almeno è finita anche per De Mei. Non entrerà mai in possesso di quella formula.»
Entrò l’infermiera con una siringa già pronta e un  un termometro in un bicchiere.
«Ora vada Viani. Ho bisogno di restare solo.»
14. Jerôme
12 gennaio 2001, Ginevra, 18,30.
Da cinque anni, Jerôme abitava da solo. Aveva imparato a cavarsela, con il suo carretto di fiori, perché sua madre gli aveva detto: «Tu sei troppo buono, figlio. Di te ci si può approfittare. Quando io non ci sarò più, non ti vorrà nessun altro. Tu hai un’anima piena, un cuore sensibile al bello. Tu sarai sempre un bambino. Il mio bambino. Tu sei una poesia, Jerôme. Cura i tuoi fiori, e fa’ che anche gli altri imparino ad amarli.»
Non aveva mai conosciuto suo padre. Mamma diceva che era un uomo importante, sempre impegnato lontano, troppo impegnato per venirlo a trovare.
Poi mamma un giorno s’era addormentata e lui non l’aveva più vista. Era rimasto solo, come lei gli aveva detto, in quella piccola casa con un giardino dove lui aveva costruito una serra per i fiori.
Si alzava alle cinque, ogni mattina. Preparava meticolosamente i vasi sul carretto e alle sette era già nel centro della città, in attesa di clienti. E, senza volerlo né saperlo, era diventato un personaggio.
Tutte le sere, come questa sera, verso le 18 riprendeva la via di casa, piano piano, costeggiando il lago e le ville dei ricchi, e, strada facendo, riusciva a vendere gli ultimi mazzi.
Il freddo pungeva, quel 12 gennaio, e lui non vedeva l’ora di arrivare a casa per accendere il  caminetto.
«Jerôme! Ti è avanzata qualche rosa?»
«Per te sempre, Blanche!»
La giovane Blanche amava riempire di fiori freschi la sua nuova casa da single e spesso lo fermava, alla fine della giornata, per acquistare a prezzo ridotto i fiori invenduti. Non che per lui fosse necessario: avesse dovuto scegliere, le sue rose avrebbero potuto sicuramente tornare a casa. Ma per veder sorridere Blanche, per farla felice, Jerôme fermò il carretto, e iniziò a riunire le ultime rose in un coloratissimo bouquet.
Quando la ragazza se ne andò, correndo felice, lui si piegò per rimuovere il fermo dalle ruote posteriori e, accucciato contro un paracarro, vide il piccolo cane dagli occhi disperati.
«Oh! Sei tu! Sapevo che ti avrei ritrovato. Ma che ci fai qui?»
Mayfair non si ritrasse. Quella voce era dolce e tranquilla. Il suo istinto gli diceva che di quell’uomo non avrebbe dovuto avere paura. Aveva fame, freddo e tremava e si abbandonò nel caldo rassicurante di quelle due mani ruvide che la sollevarono piano.
«Sei gelato poverino.»
Jerôme avvolse la cagnolina dentro uno straccio e la strinse contro di sé. Poi si avvicinò al cancello della villa.
«Forse il tuo padrone abita qui?» Sbirciò attraverso le volute di ferro battuto il viale illuminato. Fra le vetture posteggiate sul fondo, s’intravedeva il posteriore della Saab nera.
«Non è molto simpatico, però sono sicuro che sarà triste per averti perduto. Sei troppo carino.»
Mayfair intuì che l’uomo l’avrebbe riportata da dove era venuta, e tentò disperatamente di gettarsi per terra, cainando come in preda a dolore o paura.
Jerôme capì quel piccolo animale, come capiva i suoi fiori. Strinse Mayfair ancora di più al petto e tornò verso il carretto.
«No no. Non ti preoccupare. Ho capito che non vuoi entrare lì. Ora ti porto a casa e poi penseremo cosa fare.»
«Direttore? Sono io: vedo che non ha ancora eliminato il suo nuovo cellulare segreto.»
«Vero. Come sta, Tonolli?»
«Maluccio, però mi è venuta un’idea.»
«Mi dica tutto.»
«Dobbiamo incastrare De Mei, farlo uscire allo scoperto. Fargli credere che non tutto è perduto.»
«Assurdo. Ormai la formula è nelle mani della polizia italiana.»
«Ma Ryer no.»
«In che senso, scusi?»
«Soltanto lui è in grado di rendere operativo il suo progetto. Per quanto ne sa De Mei, potrebbe essere corruttibile, o no?»
«Mmmm... rischioso.»
«Meno rischioso di tante altre nostre iniziative.»
«Cosa farebbe allora?»
«Quello che so fare meglio: tenterei un altro articolo sul suo giornale.»
«E Ghezzi?»
«Probabilmente non se ne accorgerà nemmeno. Mai più va a pensare che ci rimettiamo a dar la caccia a De Mei. Piuttosto mi preoccupa il suo editore. A che punto siete?»
«Migliore di quanto prevedesse il commissario. Infatti il giornale sta andando benissimo: abbiamo mantenuto gran parte delle copie guadagnate con i suoi pezzi, molto probabilmente perché la gente s’è incuriosita e ci ritiene dei temerari. L’editore mi ha convocato dicendo che deciderà il da farsi quando sapremo l’entità della multa che dovremo sborsare. Abbiamo pattuito che ogni responsabilità sarà attribuita a me: io sarò eventualmente processato, io eventualmente perderò il mio posto. Infine, ho rivalutato il mio editore. Non ci crederà ma mi ha detto che, salvo contrordini suoi, devo andare avanti a fare il giornale con delle idee diciamo... “diverse” come le ultime!»
«Allora, si tenga pronto. Ricominciamo con l’edizione di domani. In fondo, per quello che ne sa Ghezzi, la nostra collaborazione può andare avanti dal momento che io sono disoccupato.»
«Certamente. Avvertirà Ryer?»
«Non ho ancora deciso, ma credo di no. Piuttosto, sa dove si trova ora?»
«Alla Clinica Madonnina, a Milano. Speriamo di farcela, Tonolli. Speriamo che Mayfair sia ancora viva. Perché lei lo fa per questo, vero?»
Carlo riappese senza rispondere.
La casa era modesta ma pulitissima, calda e confortevole. Jerôme accese comunque il caminetto e mise Mayfair, sempre avvolta nello straccio, in un cesto con una vecchia coperta.
«Ora ti preparo una buona zuppa, piccolino, così ti riprenderai dal freddo.»
Il cane finalmente si rilassò e fu immediatamente catturato dal sonno. Mentre armeggiava sul vecchio fornello nell’angolo cottura, l’uomo parlava come al solito a voce alta ma per una volta non con se stesso: «Chissà qual è la tua storia. Chissà da dove vieni e chi ti sta cercando. Perché, sai? Io sono certo che qualcuno ti sta cercando... non so nemmeno come ti chiami. Cosa possiamo fare? Forse dovrei telefonare alla Géndarmerie, ma quelli poi ti spedirebbero al canile e laggiù non credo si stia bene.»
Prese una ciotola, ci versò il brodo caldo e poi alcuni tocchetti di pane raffermo e piccoli pezzetti di carne cruda. Aveva letto da qualche parte che quello per i cani era il cibo ideale. O forse glielo aveva detto sua madre, non ricordava. Quando la zuppa divenne tiepida, Jerôme si avvicinò al cesto. Mayfair dormiva a pancia all’aria e lui non osò svegliarla. «Ma sei una cagnolina!» bisbigliò. In quella posizione gli fece tenerezza, sembrava ancora più piccolina. Muoveva le zampe rigide a piccoli scatti, come nell’atto di camminare al contrario. «Stai sognando, vero? Stai sognando di tornare da qualcuno... da qualcuno che ami.» Allungò la mano e la accarezzò. Allora Mayfair si svegliò di soprassalto, tornando di colpo alla realtà. «Piano, piano. Calmati, ci sono io con te.» Al suono di quella voce Mayfair si acquietò. Annusò l’odore della zuppetta che l’uomo le porgeva e iniziò a mangiare avidamente. Già dal primo boccone la medaglietta di metallo che portava al collo iniziò a battere leggermente contro la ciotola. Jerôme spostò il pelo dal collo del cane e vide la catenella sottile. Aprì il moschettone e la sfilò.
«Mayfair. Ti chiami Mayfair. Che bel nome! E qui c’è anche un numero di telefono. Che fortuna! Sei proprio un cane fortunato!»

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