Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

sabato 7 febbraio 2015

Che spettacolo!




“Che spettacolo!”, di Antonella Tomaselli (storia vera di Isa Di Molfetta, da “Confidenze tra amiche”, numero 5, 2015)


Il mio papà somiglia un po’ a Babbo Natale. Senza la barba, però. Per il resto, stessi occhi buoni, stesso sorriso dolce, stesso cuore grande. Si chiama Mauro, ma in casa lo chiamiamo affettuosamente “San Francesco, l’anziano”, e alla fine del mio racconto scommetto che sarete d’accordo su questo appellativo. Ogni mattina, all’alba, va a lavorare nei suoi campi. E ci resta per tutta la giornata. Anche quando il sole di luglio cuoce la terra, o quando il freddo di gennaio taglia la pelle. Noi gli diciamo che dovrebbe riposarsi, riguardarsi, ma lui non ascolta, gli piace così. Lavora, solitario e silenzioso, in mezzo alla natura. Be’, per dirla tutta, non è mai veramente solo e nemmeno tanto taciturno. Lo circondano i suoi animali. E lui ci parla, e li accarezza. E porta loro da mangiare. Soprattutto quando la stagione è inclemente e trovare il cibo è difficile, o addirittura impossibile. Il suo amico fisso è Filippo, una volpe che gli fa compagnia da diversi anni. E’ come se avessero un appuntamento quotidiano. Filippo prende il cibo dalle sue mani e si struscia sul fondo dei suoi pantaloni. E’ cominciata con cautela, la loro amicizia. La prima volta che si sono guardati negli occhi, quelli della volpe erano guardinghi, ma quelli del mio papà –ve l’ho detto- sono come quelli di Babbo Natale. Chi può resistergli? Così Filippo, piano piano, ha demolito quella barriera di diffidenza che serve agli animali selvatici per salvarsi dall’uomo. Ne potrei raccontare tante di storie come quella della volpe, ma ne scelgo una che ha preso il via un giorno dello scorso dicembre. Il cielo era limpido, e il sole alto aveva reso l’aria leggermente più tiepida. Papà, in pausa pranzo, si era seduto su un ceppo d’albero e stava aprendo la carta che avvolgeva un panino, quando lo vide: sbucava parzialmente da un cespuglio. Aveva le orecchie ritte, gli occhi attenti, il musino un po’ a punta. Era un “pometto”. Li chiamiamo così, dalle nostre parti, quei cani di tipo volpino. Papà gettò nella sua direzione un grosso boccone del suo pane. Il pometto ebbe un fremito, ma non si mosse dalla sua postazione. Mio padre allora ne gettò un altro. Veloce come un furetto, il simil-volpino si gettò su uno dei pezzi di pane e con un balzo sparì dietro ai cespugli. Corse lontano: sembrava un folletto dei boschi. Tornò più tardi, a riprendersi l’altro boccone: stesse mosse, stessa fulminea rapidità.
E ritornò ancora. Papà si diresse allora verso l’automobile, dove teneva le scorte di cibo. Ne prese una parte, che posò a terra, invitando il pometto. Il cane si avvicinò, il suo pelo era sporco di fango e di terra. Papà si allontanò un poco, per permettergli di prendere le vivande. La scena si ripeté per diversi giorni. Naturalmente i due diventarono amici. Quando mio padre arrivava in campagna, il pometto era già là che l’aspettava. Spariva col cibo, ma poi tornava a giocare con lui. Gli saltellava fra le gambe, lo seguiva nei lavori, aspettava le coccole, e sembrava ascoltare con attenzione ciò che mio padre gli raccontava. «Tu capisci proprio tutto» gli disse un giorno mentre l’accarezzava. «Ti manca solo la parola. Sei tanto intelligente. Ma anche tanto sfortunato. Sei qui al freddo. Se non ci fossi io che ti porto da mangiare, come faresti? Sei così solo. In questo momento si sente tanto sola e triste anche mia moglie. Potrei portarti a casa, da lei. Vi fareste compagnia. E tu, con quel musino furbetto, la faresti sorridere. E allontaneresti i suoi dispiaceri. Almeno un po’».
Detto, fatto: mio padre prese il pometto, lo caricò in macchina e tornò a casa. Entrò con il cane tra le braccia, chiamando a gran voce mia madre. Lei si coprì il viso con le mani, con un “oh” di meraviglia. Aveva gli occhi umidi, mentre papà le diceva che il cane era per lei. Ci chiamarono tutti – io e la mia famiglia abitiamo al piano superiore- per mostrarci il nuovo arrivato. Il simil-volpino sembrava a suo agio, si lasciava accarezzare anche da noi, senza paura. Lo mettemmo in veranda e ci sguinzagliammo: qualcuno cercò una ciotola per l’acqua, altri prepararono una cuccetta accogliente, altri ancora gli portarono un po’ di cibo. Mia mamma sorrideva. Ma poco dopo il pometto andò verso una delle vetrate. Scrutava l’esterno, lo sguardo fisso sull’orizzonte. E cominciò a piangere. Un uggiolio sommesso, continuo. Invano cercavamo di consolarlo. Ci faceva una pena indicibile. Quando qualcuno gli andava vicino, smetteva giusto un attimo, si girava a pancia in su e guardava chi gli allungava una carezza con occhi che chiedevano, imploravano. Poi ricominciava a piangere. Appena papà entrava in veranda il piccolino gli correva appresso, gli prendeva con delicatezza i pantaloni e lo tirava verso la porta. Alla fine mio padre glielo disse: «Ho capito. Vuoi ritornare nei campi. Qui non ti va bene, preferisci la tua libertà. Domani ti riporto dove ti avevo preso». Eravamo tutti dispiaciuti. La mamma forse di più. Ma non volevamo che il piccolo fosse infelice. Fu così che il giorno dopo lo salutammo. Papà lo mise sui sedili posteriori dell’automobile. Partirono in direzione della campagna. Giunti sul posto, mio padre aprì la portiera e lo fece scendere. Il cane prese a piroettargli intorno, ancora uggiolando. Poi lo tirò per i pantaloni. Con ostinazione. «Be’, se è questo che vuoi, ti seguo. Fammi strada» gli disse allora papà. Il cane partì di corsa, ma ogni tanto si fermava per permettere a mio padre di raggiungerlo. Lo aspettava e poi riprendeva. D’un tratto il simil-volpino rallentò e scomparve dietro a un cespuglio. Quando papà arrivò rimase attonito, non voleva credere ai suoi occhi. Riuscì solo a mormorare: «Che spettacolo!»
Il pometto era ritto in piedi, come sull’attenti, dietro di lui, coricata su un fianco, ma con la testa sollevata, c’era una cagnolina. Anche lei una volpina, o qualcosa comunque di molto simile. Tremava, forse per il freddo, forse per la paura. Attaccati alle sue mammelle quattro cuccioli succhiavano quel poco latte che la poverina aveva. Il cane sembrava volesse dire: «Ecco perché non volevo stare a casa tua, non potevo lasciare la mia famiglia». In mio padre lo stupore lasciò il posto alla tenerezza. Sentì il cuore sciogliersi. Aveva davanti a sé un quadretto d’amore fra i più belli, fra i più veri, fra i più dolci. Accarezzò il pometto: «Che cane! Sapevi che senza di te, loro non sarebbero sopravvissuti. Ecco perché non ti ho mai visto mangiare il cibo che ti davo, lo portavi a lei». Inutile dire che mio padre caricò tutti in macchina: marito, moglie e prole al completo. Tornò subito a casa e ci chiamò: «Venite, voglio mostrarvi qualcosa di straordinario, vi presento Giuseppe e Maria, e i loro figlioli». Ci raccontò tutto e aggiunse che aveva voluto chiamare così i due volpini perché il Natale era alle porte e, secondo lui, quei cagnolini rappresentavano un grande e profondo messaggio d’amore. Be’, adesso Giuseppe e Maria fanno parte della nostra famiglia. E io – lo so già- cederò alle richieste pressanti dei miei figli e terrò anche uno dei loro cucciolotti. Per gli altri stiamo cercando qualcuno che possa dare loro tutto l’affetto che meritano. Dimenticavo di dirvi che mio padre sceglie sempre, per tutti gli animali, nomi di persone. Lui dice che siamo tutti creature di Dio. E io so che ha ragione.






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