“Che spettacolo!”, di Antonella Tomaselli (storia vera di Isa Di Molfetta, da “Confidenze tra amiche”, numero 5, 2015)
Il
mio papà somiglia un po’ a Babbo Natale. Senza la barba, però. Per il
resto, stessi occhi buoni, stesso sorriso dolce, stesso cuore grande. Si
chiama Mauro, ma in casa lo chiamiamo affettuosamente “San Francesco,
l’anziano”, e alla fine del mio racconto scommetto che sarete d’accordo
su questo appellativo. Ogni mattina, all’alba, va a lavorare nei suoi
campi. E ci resta per tutta la giornata. Anche quando il sole di luglio
cuoce la terra, o quando il freddo di gennaio taglia la pelle. Noi gli
diciamo che dovrebbe riposarsi, riguardarsi, ma lui non ascolta, gli
piace così. Lavora, solitario e silenzioso, in mezzo alla natura. Be’,
per dirla tutta, non è mai veramente solo e nemmeno tanto taciturno. Lo
circondano i suoi animali. E lui ci parla, e li accarezza. E porta loro
da mangiare. Soprattutto quando la stagione è inclemente e trovare il
cibo è difficile, o addirittura impossibile. Il suo amico fisso è
Filippo, una volpe che gli fa compagnia da diversi anni. E’ come se
avessero un appuntamento quotidiano. Filippo prende il cibo dalle sue
mani e si struscia sul fondo dei suoi pantaloni. E’ cominciata con
cautela, la loro amicizia. La prima volta che si sono guardati negli
occhi, quelli della volpe erano guardinghi, ma quelli del mio papà –ve
l’ho detto- sono come quelli di Babbo Natale. Chi può resistergli? Così
Filippo, piano piano, ha demolito quella barriera di diffidenza che
serve agli animali selvatici per salvarsi dall’uomo. Ne potrei
raccontare tante di storie come quella della volpe, ma ne scelgo una che
ha preso il via un giorno dello scorso dicembre. Il cielo era limpido, e
il sole alto aveva reso l’aria leggermente più tiepida. Papà, in pausa
pranzo, si era seduto su un ceppo d’albero e stava aprendo la carta che
avvolgeva un panino, quando lo vide: sbucava parzialmente da un
cespuglio. Aveva le orecchie ritte, gli occhi attenti, il musino un po’ a
punta. Era un “pometto”. Li chiamiamo così, dalle nostre parti, quei
cani di tipo volpino. Papà gettò nella sua direzione un grosso boccone
del suo pane. Il pometto ebbe un fremito, ma non si mosse dalla sua
postazione. Mio padre allora ne gettò un altro. Veloce come un furetto,
il simil-volpino si gettò su uno dei pezzi di pane e con un balzo sparì
dietro ai cespugli. Corse lontano: sembrava un folletto dei boschi.
Tornò più tardi, a riprendersi l’altro boccone: stesse mosse, stessa
fulminea rapidità.
E
ritornò ancora. Papà si diresse allora verso l’automobile, dove teneva
le scorte di cibo. Ne prese una parte, che posò a terra, invitando il
pometto. Il cane si avvicinò, il suo pelo era sporco di fango e di
terra. Papà si allontanò un poco, per permettergli di prendere le
vivande. La scena si ripeté per diversi giorni. Naturalmente i due
diventarono amici. Quando mio padre arrivava in campagna, il pometto era
già là che l’aspettava. Spariva col cibo, ma poi tornava a giocare con
lui. Gli saltellava fra le gambe, lo seguiva nei lavori, aspettava le
coccole, e sembrava ascoltare con attenzione ciò che mio padre gli
raccontava. «Tu capisci proprio tutto» gli disse un giorno mentre
l’accarezzava. «Ti manca solo la parola. Sei tanto intelligente. Ma
anche tanto sfortunato. Sei qui al freddo. Se non ci fossi io che ti
porto da mangiare, come faresti? Sei così solo. In questo momento si
sente tanto sola e triste anche mia moglie. Potrei portarti a casa, da
lei. Vi fareste compagnia. E tu, con quel musino furbetto, la faresti
sorridere. E allontaneresti i suoi dispiaceri. Almeno un po’».
Detto,
fatto: mio padre prese il pometto, lo caricò in macchina e tornò a
casa. Entrò con il cane tra le braccia, chiamando a gran voce mia madre.
Lei si coprì il viso con le mani, con un “oh” di meraviglia. Aveva gli
occhi umidi, mentre papà le diceva che il cane era per lei. Ci
chiamarono tutti – io e la mia famiglia abitiamo al piano superiore- per
mostrarci il nuovo arrivato. Il simil-volpino sembrava a suo agio, si
lasciava accarezzare anche da noi, senza paura. Lo mettemmo in veranda e
ci sguinzagliammo: qualcuno cercò una ciotola per l’acqua, altri
prepararono una cuccetta accogliente, altri ancora gli portarono un po’
di cibo. Mia mamma sorrideva. Ma poco dopo il pometto andò verso una
delle vetrate. Scrutava l’esterno, lo sguardo fisso sull’orizzonte. E
cominciò a piangere. Un uggiolio sommesso, continuo. Invano cercavamo di
consolarlo. Ci faceva una pena indicibile. Quando qualcuno gli andava
vicino, smetteva giusto un attimo, si girava a pancia in su e guardava
chi gli allungava una carezza con occhi che chiedevano, imploravano. Poi
ricominciava a piangere. Appena papà entrava in veranda il piccolino
gli correva appresso, gli prendeva con delicatezza i pantaloni e lo
tirava verso la porta. Alla fine mio padre glielo disse: «Ho capito.
Vuoi ritornare nei campi. Qui non ti va bene, preferisci la tua libertà.
Domani ti riporto dove ti avevo preso». Eravamo tutti dispiaciuti. La
mamma forse di più. Ma non volevamo che il piccolo fosse infelice. Fu
così che il giorno dopo lo salutammo. Papà lo mise sui sedili posteriori
dell’automobile. Partirono in direzione della campagna. Giunti sul
posto, mio padre aprì la portiera e lo fece scendere. Il cane prese a
piroettargli intorno, ancora uggiolando. Poi lo tirò per i pantaloni.
Con ostinazione. «Be’, se è questo che vuoi, ti seguo. Fammi strada» gli
disse allora papà. Il cane partì di corsa, ma ogni tanto si fermava per
permettere a mio padre di raggiungerlo. Lo aspettava e poi riprendeva.
D’un tratto il simil-volpino rallentò e scomparve dietro a un cespuglio.
Quando papà arrivò rimase attonito, non voleva credere ai suoi occhi.
Riuscì solo a mormorare: «Che spettacolo!»
Il
pometto era ritto in piedi, come sull’attenti, dietro di lui, coricata
su un fianco, ma con la testa sollevata, c’era una cagnolina. Anche lei
una volpina, o qualcosa comunque di molto simile. Tremava, forse per il
freddo, forse per la paura. Attaccati alle sue mammelle quattro cuccioli
succhiavano quel poco latte che la poverina aveva. Il cane sembrava
volesse dire: «Ecco perché non volevo stare a casa tua, non potevo
lasciare la mia famiglia». In mio padre lo stupore lasciò il posto alla
tenerezza. Sentì il cuore sciogliersi. Aveva davanti a sé un quadretto
d’amore fra i più belli, fra i più veri, fra i più dolci. Accarezzò il
pometto: «Che cane! Sapevi che senza di te, loro non sarebbero
sopravvissuti. Ecco perché non ti ho mai visto mangiare il cibo che ti
davo, lo portavi a lei». Inutile dire che mio padre caricò tutti in
macchina: marito, moglie e prole al completo. Tornò subito a casa e ci
chiamò: «Venite, voglio mostrarvi qualcosa di straordinario, vi presento
Giuseppe e Maria, e i loro figlioli». Ci raccontò tutto e aggiunse che
aveva voluto chiamare così i due volpini perché il Natale era alle porte
e, secondo lui, quei cagnolini rappresentavano un grande e profondo
messaggio d’amore. Be’, adesso Giuseppe e Maria fanno parte della nostra
famiglia. E io – lo so già- cederò alle richieste pressanti dei miei
figli e terrò anche uno dei loro cucciolotti. Per gli altri stiamo
cercando qualcuno che possa dare loro tutto l’affetto che meritano.
Dimenticavo di dirvi che mio padre sceglie sempre, per tutti gli
animali, nomi di persone. Lui dice che siamo tutti creature di Dio. E io
so che ha ragione.
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