Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

lunedì 4 maggio 2015

Per Allegra




“Per Allegra”, di Antonella Tomaselli (storia vera di Fabiana Grasso, da Confidenze tra amiche, numero 43, 2014)

“Allegra! Dove sei?” mi sgolavo muovendomi veloce, mentre la cercavo a destra e a manca. “Eccoti qui, pigrona!”. L’avevo scovata finalmente: era spaparanzata sul suo cuscinone preferito e non si degnava di rispondere ai miei richiami. Del resto erano solo le otto del mattino, per lei era ancora l’ora della nanna. Quando le fui vicino alzò appena appena la testa e mi guardò con quegli occhioni pieni di sonno che mi facevano così tenerezza. Piano, ma veramente piano, si girò sulla schiena e con le zampotte in aria mi chiese coccole. Non potei fare a meno di accarezzarle un poco il pancino e il petto, mentre mi ricambiava con sguardi d’amore. Lei. Una bulldog inglese. Venti e passa chilogrammi di cane, tutto compreso: pelo, ossa, ciccia, rughe e tanto cuore. Quando, qualche anno prima, me l’ero ritrovata tra le braccia, era una morbida cucciola tutta pieghe, e così allegra, che avevo deciso di chiamarla proprio “Allegra”. E di allegria ne aveva portata nella mia vita.
“Allegra, io devo andare a consegnare un regalo a nonna Emi, vieni anche tu?” le dissi tra una moina e l’altra. Aggiunsi anche la parolina che lei conosceva tanto bene: “Andiamo?”. Nessuna risposta. Stiracchiò giusto una zampa. Ma poco. Le sventolai il guinzaglio sotto il naso. Nessun lampo negli occhi, immutati e languidi. Mi rassegnai e uscii da sola.
Un paio di commissioni e sarebbe presto arrivata l’ora di pranzo di quel bellissimo 25 dicembre del 2006, da festeggiare in famiglia.

Stavo ormai guidando verso casa, quando la mia attenzione fu attirata dalle ultime notizie diffuse dall’autoradio. Una mi colpì in modo particolare: un ragazzo di ventisette anni aveva perso la vita il giorno della vigilia, nel tentativo di soccorrere un cane che era appena stato investito. Accostai e mi fermai. Avevo gli occhi velati di lacrime.
Non si può morire la vigilia di Natale, quando il cuore è così pieno di calore, quando tutto è più dolce, quando le strade sono piene di luminarie, quando si aspettano i primi fiocchi di neve.
Non si può morire per un gesto d’amore. Quel ragazzo, di cui non avevo afferrato il nome, si era precipitato verso il cane, per aiutarlo. La sua fidanzata aveva giusto fatto in tempo a gridargli di stare attento. Un attimo dopo lui era stato investito, a sua volta, da un’automobile che stava sopraggiungendo. Erano morti tutti e due, lui e il cane.
Fu automatico per me immedesimarmi nella vicenda: troppe volte io e mia mamma ci eravamo ritrovate in mezzo a una strada per soccorrere un cane investito, o per cercare di salvare un cane abbandonato. Poveri animali feriti, terrorizzati, angosciati, affamati, sperduti, disperati.
Quante volte avevamo corso il rischio di morire come quel ragazzo?
Immaginai i suoi sogni. Che ormai non poteva più realizzare.
Pensai al dolore immenso della sua famiglia, della sua fidanzata.
Non poteva succedere tutto questo. Non era giusto. Era troppo crudele.
Quando, asciugati gli occhi, ripartii, sapevo che anch’io dovevo fare qualcosa.
Quel giorno la mia vita cambiò. Alcuni mesi prima mi ero occupata, per un’importante agenzia di comunicazione, del lancio internazionale di un olio dal packaging esclusivo.
Mi dissi: “Mediante una buona strategia di comunicazione si riescono a vendere delle piccole botti – pur carinissime- di olio extravergine di oliva, a prezzi stratosferici. Perché non si può trovare la giusta strategia anche per far capire alle persone quanto sia orribile abbandonare un cane?”.
Fu così che decisi di utilizzare le mie competenze professionali per cercare di contenere, ridurre questa piaga. Be’, l’obiettivo sarebbe di estinguerla, e voglio credere che non sia un’utopia. Il 27 marzo 2007 lanciai un progetto di comunicazione sociale: chiesi aiuto ai bambini della scuola primaria per realizzare una campagna contro l’abbandono, in grado di toccare il cuore degli adulti.
Sì, la mia vita era davvero cambiata: da addetta stampa responsabile della comunicazione di prodotti di lusso, piano piano mi ero trasformata in una professionista della comunicazione al servizio di chi non ha voce.
Come potevo chiamare questo mio progetto? Lo intitolai ad Allegra, la mia fedele e bella cagnolona, l’essere più dolce e buono che io abbia mai avuto la fortuna di incontrare. Allegra aveva reso la mia vita da ordinaria a straordinaria, mi aveva insegnato ad amare e rispettare gli animali. Dopo di lei in casa avevamo accolto altri cani, e, dato che avevamo un giardino grande, arrivarono anche la capretta Camilla e la maialina Betti.

Così il progetto partì col nome di “Allegra, yes I am”. Mi sembrava anche beneaugurante!
Preparammo il primo spot contro l’abbandono, a cui, nel tempo, ne seguirono tanti altri, trasmessi, di volta in volta, dalla R.A.I e da Mediaset.
Il progetto, dal 2007 a oggi, ha ottenuto buoni risultati, grazie anche ai professionisti nei diversi ambiti della comunicazione che mi hanno dato una mano sostanziosa. Queste persone, che naturalmente hanno in comune con me un grande amore per gli animali, oltre a essere parte integrante del progetto, sono anche diventate punti di riferimento molto importanti nella mia vita. Persone che non avrei mai incontrato se non avessi deciso di incamminarmi in questa direzione. Siamo ormai una squadra – piccola, è vero- ma determinata. E poi con noi ci sono tutti i bambini che hanno partecipato e che parteciperanno alle nostre iniziative!
Da quel Natale del 2006 ne è passato di tempo: mi sono innamorata, mi sono sposata, è nato il mio primo bambino, e dopo ancora è nata la mia bambina. Allegra, la mia bulldog, aveva già compiuto dieci anni, quando un giorno si ammalò. Gravemente. Cercai di aiutarla in tutti i modi possibili. Appena prima di entrare in ospedale per partorire mio figlio, mi ricordo che la salutai con grande trasporto. Non volevo lasciarla. Temevo di non trovarla al mio ritorno. Mi guardava con i suoi seri e saggi occhioni. Ero certa che capisse ciò che sentivo. Per me fu un momento di intensità eccezionale. Anche per lei. Lo so.
Mi aspettò. Aspettò il mio ritorno, per l’addio definitivo. Ma non voglio ricordare il suo ultimo sguardo, altrimenti temo di non riuscire a sopportare il magone che mi cresce dentro. Voglio ricordarmi la mia dolce Allegra quando mi trotterellava vicino, mi invitava al gioco, mi guardava curiosa. Voglio ricordarla quando inseguiva le farfalle, o nascondeva le mie pantofole, o –inconsapevole del suo peso e della sua forza- atterrava sui miei piedi, mettendosi seduta comoda. Voglio ricordarla quando da attrice consumata implorava un bocconcino prelibato, e quando mi guardava, amorevolissima, da sotto in su. Molte volte ho nostalgia di lei e mi ritrovo a rimirare le sue foto, anche quelle sul sito di “Allegra yes I am”. E mentre il progetto col suo nome continua, il mio pensiero torna a quel ragazzo che mi toccò il cuore nel 2006. Spesso, ancor di più ora che sono mamma, penso ai suoi genitori. Vorrei che sapessero che anch’io ho sofferto per il loro figliolo. E che la loro tragedia ha dato una svolta alla mia vita. Forse leggeranno queste righe. E vi si riconosceranno. Da qui, io mando a loro il mio abbraccio più forte e più grande.






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