Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

giovedì 4 giugno 2015

Gocce di felicità


               
“Gocce di felicità”, di Antonella Tomaselli (storia vera di Renata Fossati, da Confidenze tra amiche, numero 23, 2015)

Avevo spinto la porta ed ero entrata, seguita dal mio cane, un samoiedo. La sensazione era quella di varcare la soglia di un altro mondo. Un mondo a parte, chiuso dentro a una bolla di sapone. Pieno di una sua delicata e impalpabile poesia, se la sai scoprire, se la sai destare. Mi aveva accolto Maria, l’animatrice. Ragazza d’oro. Mi aveva lanciato un “ciao” carico di sole e si era abbassata per accarezzare Jaja, la mia cagnolona. Le aveva anche stampato un bacio sulla testa. Jaja aveva risposto scodinzolando. Ci dirigemmo verso il gruppetto di persone che ci aspettava nel grande salone. Alcuni vecchi erano seduti sulle poltroncine allineate contro la parete di destra, altri erano accomodati sulle carrozzine. Tutti immobili, come in un fermo immagine. Gli occhi vinti, in quella dimensione sospesa, in quel limbo senza sogni. Era un gruppo aperto quello che ci attendeva. I partecipanti erano una dozzina, poi ce n’erano altri che si univano, se volevano, di volta in volta.
Appena i “nonnini” ci videro si accesero sguardi e sorrisi. Il salone si animò, riprese vita. Tutti salutavano Jaja. La volevano accarezzare e la chiamavano. Lei, tranquilla, si lasciava fare. Qualcuno, rivolgendosi alla cagnolona, diceva “Che pelo soffice”, altri “Come sei bianca”, altri ancora “Quanto sei bella!”.
Solo Pina non diceva niente. Lei non parlava. Non era muta, ma da diversi anni, da quando era entrata nella casa di riposo, non aveva mai detto una parola. Mai. Era dolce Pina, accondiscendente, amabile, docile. Aveva gli occhi chiari. Le palpebre stanche lasciavano poco spazio al celeste dell’iride, ma in quel piccolo tratto di cielo c’era lo sguardo gentile dei bambini. Ogni volta si ravvivava alla vista di Jaja, e sorrideva. Mi faceva tenerezza quel suo sorriso senza denti. E ogni volta Maria le si avvicinava e, ripetitiva, le diceva: “Pina, accarezza le orecchie di Jaja. Senti come sono morbide”. Pina ubbidiente allungava le mani verso il muso del cane, e con quelle dita ossute e un po’ deformate dall’artrite, accarezzava le minuscole orecchie pelose. E allora sorrideva ancora, e ancora, arricciando i sentieri profondi delle rughe. Quasi rideva.
Quel giorno Maria, come le altre volte, l’aveva incalzata: «Cosa sono queste? Sono o- rec - chie».
Jaja aveva appoggiato la testa in grembo alla nonnina, che continuava ad accarezzarla.
Fu in quel preciso momento che Pina alzò lo sguardo su di noi, e con fatica, con grande sforzo, cercando la voce dove non c’era più, aveva mormorato qualcosa. Maria mi aveva guardato interrogativa, con un “oh” di stupore disegnato in faccia. Istintivamente ci eravamo abbassate entrambe verso Pina. Lei ci sorrideva, e ancora ripeté, con voce afona, cavernosa, lontana, ma comprensibile: “O –rec - chie”. Mi venne spontaneo di applaudirla. Maria con gli occhi lucidi, rideva e abbracciava e accarezzava quella nonnina, mentre mi ribadiva che sentiva la sua voce per la prima volta.
Pina era lanciata, quasi incredula di emettere dei suoni articolati, prese a dire con quella sua voce strana, scavata, gutturale: «Ja – ja», e lo ripeteva. E lo ripeteva. Una grande conquista per lei.

Qualche settimana dopo mi avrebbe stupita Luigia. Lei era un tutt’uno con la sua sedia a rotelle. Parcheggiata ora davanti a una vetrata che dava sul giardino, ora nella sala del televisore, lei era comunque sempre staccata, lontana. Imprigionata nel suo feroce morbo di Alzheimer, c’era e non c’era. Diafana. La memoria vuota. Era come un soprammobile, solo si guardava intorno.
Maria, spingendo la carrozzina, la portò, per la prima volta, nel nostro gruppo. Jaja le si avvicinò e appoggiò le sue zampone sulla sedia a rotelle. Si guardarono. Luigia non le staccava gli occhi di dosso. Quattro, cinque secondi di un’intensità incredibile, poi la vecchietta si aprì in un sorriso raggiante e allungò le braccia a cingere il cane. E prese a dirgli: «Finalmente tesoro mio, sei tornato! Vieni più vicino, mi sei mancato. Hai fame? Oh, i tuoi ricciolini sono troppo lunghi. Dopo andiamo dal toelettatore». Allora io mi rivolsi a lei: «Luigia, non sapevo che avesse un cane. Che cane ha?». Alzò un viso radioso verso di me, festosa, gli occhi straripanti di gioia: «E’ un barboncino! Non lo vedi? Si chiama Tobby». Poi, rivolta sia a me che a Maria, proseguì: «Ragazze, venite a prendere un tè con noi, sono così felice». «Sei contenta per il tuo cane?», le chiese Maria. «Sì», rispose lei, «è così bello. Il suo colore champagne mi piace più di tutto. E’ il cagnolino più dolce del mondo». Luigia era felice, come nessuno, lì, l’aveva mai vista. Lei aveva avuto, in gioventù, un barboncino e adesso non vedeva quel grosso samoiedo candido che si lasciava accarezzare e abbracciare, ma vedeva il suo piccolo Tobby. La sua emozione era tornata indietro, aveva aperto una porta chiusa del cuore, là dove c’era, nascosta e dimenticata, la traccia del suo amato barboncino.
Poi fu la volta di Agnese, novantenne, lucidissima, sempre elegante, più autonoma di altri ospiti. Aveva un’aria molto snob. Si rifugiava spesso nelle pagine di un libro. Maria la invitò a unirsi al nostro gruppo, lei, giusto per non essere scortese, si avvicinò a noi. La salutai cordialmente e avviammo una piccola conversazione, in cui rilevai il suo buon livello culturale. «Le piace il mio cane?», le chiesi indicandolo. «Sì, è bello. Però è pur sempre un cane», rispose lei altera. «Vuole accarezzarlo?», insistetti. Agnese, per educazione, allungò una mano in una carezza. «Nella vita ci sono cose più importanti di un cane» disse in un sussurro, e se ne andò. Quella scena si ripeté, con gli stessi dettagli e con altre parole, che avevano però lo stesso senso, più volte. Un giorno Agnese indugiò qualche minuto in più nella solita carezza a Jaja, poi, prese a raccontare. Mettendo a nudo la sua anima. Aveva sette anni quando le affidarono in custodia la sorellina più piccola. La perse di vista un attimo. Proprio solo un istante. E la sorellina cadde nel lago. E annegò. Lei l’aveva cercata, con un’angoscia troppo grande per il suo cuoricino di bambina. Urlando e disperandosi. E l’aveva trovata.
«Quel giorno ho pianto tutte le mie lacrime. Non ho mai più pianto, dopo di allora. Non posso certo perdere tempo dietro a un cane», concluse.
Maria mi guardava allibita. Quella drammatica storia non la conosceva nessuno. Agnese finalmente era riuscita a raccontarla. Grazie a un cane. Maria l’abbracciò. Io le presi una mano e le dissi: «Non è stata colpa sua, lei era solo una bambina… Non ne è responsabile. Si tolga questo macigno dal cuore». Lei strinse la mia mano, mentre negli occhi, finalmente, le brillavano, silenziose, due lacrime. Non diventò una partecipante fissa del nostro gruppo, ma ogni volta, nel momento del congedo, lei appariva, come sbucando dal nulla. E salutava me e il mio cane. Il solo pensiero di averle reso possibile di aprirsi, e di rendere un po’ meno pesante quell’enorme senso di colpa, fu per me molto gratificante.
E poi c’era Giacomo. Lui non partecipava a nessuna attività proposta dall’animatrice. Osservava come da una finestra. Se interpellato rispondeva a monosillabi. Maria lo invitava: «Vieni qui con noi. Guarda che bel cane!». Lui, dicendo di no, faceva dietro front. Ma, ogni volta, quando io e Jaja ce ne andavamo, lo trovavamo davanti alla porta. Ci aspettava. Accarezzava la cagnolona e le parlava. Anche a me chiedeva un sacco di cose: cosa mangiava Jaja, che faceva quando uscivamo da là, e via dicendo.
Una ventina di nonnini, tra quelli più in forma, andò al mare per un paio di settimane, insieme a Maria. Quando tornarono l’animatrice mi disse che tutti non vedevano l’ora di rientrare nella casa di riposo per rivedere Jaja. Temevano che non li avrebbe riconosciuti. Naturalmente Jaja li accolse facendo un sacco di feste. Ricambiate a dismisura dai vecchietti vacanzieri.
E così, la vita, invece di essere consumata, era di nuovo vissuta, costellata da piccole irrefrenabili emozioni.
Questi sono solo alcuni degli episodi in cui mi sono trovata coinvolta svolgendo un’attività che ancora non è appropriatamente valorizzata: la pet therapy. Sono stata testimone, insieme ai miei cani, di un numero notevole di vicende che mi hanno toccato il cuore. L’obiettivo principale in una casa di riposo è l’attivazione del dialogo. Gli ospiti spesso sono troppo chiusi in loro stessi. Forse qualcuno, all’arrivo, ha cercato di raccontare la propria storia, ma si è ritrovato davanti una controparte che non la voleva ascoltare, e quindi il dialogo si è spento. Si è spento anche per il senso di abbandono. Dunque è importante, per stimolarli, avere un argomento tosto di cui parlare: con un cane le dinamiche che si attivano sono parecchie, tanti gli spunti. Tra me e i vecchietti c’è da sempre una corrente empatica parecchio importante - be’, per dirla tutta, anche con i bambini, e con i cani- , negli occhi di ogni nonnino e di ogni nonnina ho sempre visto quelli di mia mamma, e quelli di mia suocera, morta di Alzheimer. L’orribile malattia le aveva portato via la memoria, ma non le emozioni. Ricordo che quando guardava suo figlio diceva: «Non so chi sei, ma so che ti voglio bene». Se con l’aiuto dei miei cani posso regalare ai nonnini sensazioni piacevoli, un po’ di serenità, e forse anche delle gocce di felicità, ho raggiunto il mio scopo.
E questo per me non ha prezzo.
Ho proficuamente lavorato con i miei cani anche nelle scuole e negli ospedali (in ambito psichiatrico). Alla fine del 2000 ho messo a punto un protocollo – che in seguito ho aggiornato- con tutte le dinamiche che ruotano intorno alla Pet Therapy. L’avevo avviato seguendo i protocolli americani, che ritenevo molto pragmatici. In questo ambito non si può e non si deve improvvisare nulla. Dal 2005 il mio programma è stato approvato dal Ministero per corsi ECM in medicina e insegnamento, dove la pet therapy, è entrata come argomento formativo. Lo so, la strada da percorrere è ancora lunga. Ma, io e i miei cani, non molliamo!




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