Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

mercoledì 16 settembre 2015

Tigre contro Tigre



“Tigre contro tigre”, di Antonella Tomaselli (storia vera di Lina B., da Confidenze tra amiche, numero 33, 2015)


7 luglio. Faceva caldo. Io e mio figlio, verso le dieci del mattino, ci eravamo messi dietro casa, all’ombra. Lì, a quell’ora, si muoveva una brezza piacevole. Io lavoravo al computer e mio figlio studiava per un prossimo esame. Pace assoluta. Lontani da ogni rumore che non appartenesse alla natura. Circondati da rose, ginepri, oleandri e buganvillee. Ci distrasse Eva, la gatta dei nostri vicini. Come ogni giorno era venuta a tenerci compagnia. E’ una micetta deliziosa. Potrebbe sembrare totalmente fulva, ma guardando meglio si vedono striature leggermente più scure, e allora pare di più una tigrotta. I suoi occhi, di giada luminosa, sono un’opera d’arte. Ci saluta sempre con un “miao”. Uno solo. Non si spreca. Si struscia sulle nostre gambe pretendendo una coccola e poi raggiunge la sua solita postazione: un vicino muretto in pietra. Lì si addormenta. Al risveglio sbadiglia mettendo in mostra una chiostra di indiscutibili denti da felino, poi comincia meticolosamente a lavarsi il musino: lecca una zampa e se la passa sugli occhi e sulle orecchie. Sta più da noi che dai vicini. Ci ha adottati. E noi siamo felici di piacerle. Ma ritorniamo a quel mattino del 7 luglio. La pace assoluta in cui eravamo immersi io e mio figlio, fu bruscamente interrotta da un agile balzo di Eva. Fulminea, si era tuffata sotto la macchia delle rose coprisuolo. Contemporaneamente l’aria si era riempita delle grida di un uccellino. D’istinto io e mio figlio scattammo in piedi guardandoci interrogativi. In un baleno gli occhi si spostarono verso le rose da cui Eva stava riemergendo. Un altro balzo e la gatta era di nuovo sul muretto. Orrore: aveva tra le fauci qualcosa… che si dibatteva. Fu automatico per me lanciare un urlo, correre verso di lei, gridare il suo nome. Il tutto quasi simultaneamente. Eva aprì la bocca e liberò un piccolo merlo che svolazzò dal muretto fino al pavimento del patio. Mio figlio si precipitò verso l’uccellino per proteggerlo da un eventuale affondo finale della gatta.
Ma non era stata la mia agitazione a far desistere Eva. Davanti a lei si era materializzata, come comparsa dal nulla, la mamma dell’uccellino. E le si buttava contro. Cinguettava, o meglio, le urlava sul musino. A becco spalancato. Piantata sulle due zampette, con il petto in fuori e le ali spalancate. Ferme nella loro posizione, gatta e merla, per svariati secondi, continuarono nella sfida. Una tigre contro un’altra tigre. Poi Eva per un attimo sembrò disorientata. Indietreggiò di un passo e mamma uccello le si fece più contro, sempre inveendo. Feroce. I suoi non erano cinguettii, erano urla forti, disperate, estreme.
Eva fece un altro passo indietro. E cuore di mamma avanzò in attacco.
La gatta batté velocemente in ritirata. La merla la inseguì, volandole appresso, giusto una ventina di centimetri più in alto. Si udivano solo le sue grida. Incalzata con tale veemenza, Eva correva veloce e scomparve lontano. A quel punto io e mio figlio rivolgemmo le nostre attenzioni al merlo cucciolo. Perdeva sangue vicino all’attaccatura di un’ala. Era immobile. Certamente era sotto shock. Non sapevamo cosa fosse giusto fare per aiutarlo. E non capivamo se fosse ferito gravemente o meno. Decidemmo di metterlo in una grossa scatola, aperta in alto. Sul fondo appoggiammo della carta morbida e una ciotolina con dell’acqua. Mio figlio prese con grande delicatezza l’uccellino e lo posò nell’insolito nido. Sopra la scatola mettemmo una vecchia ruota di bicicletta: i raggi, uno vicino all’altro, avrebbero impedito agli istinti venatori di Eva, un nuovo assalto. Intanto il piccolo non sanguinava più. Collocammo la scatola al centro del patio, così, se la merla fosse tornata l’avrebbe trovato.
E la merla tornò.
Volava basso sopra le rose: su, giù, a destra, a sinistra. Infaticabile. E chiamava il suo cucciolo. E di nuovo, su e giù, a destra e a sinistra, sopra le rose e i ginepri. Strappava il cuore. Arrivava anche a cinque, sei metri dalla scatola nel patio, ma poi virava. Io e mio figlio eravamo immobili, col fiato sospeso, per non disturbare le ricerche. I suoi giri, colmi di richiami angosciati, si fecero leggermente più larghi. Dopo circa una quindicina di minuti la mamma uccello, di colpo, prese una direzione a dritta e sparì nel cielo, oltre gli alberi più lontani.
Ci avvicinammo alla scatola con il piccolo merlo. Lui era lì, inzuppato di paura e statico. Però se allungavamo una mano verso di lui, spalancava il becco. Forse per difendersi. Povero cucciolo! Pensammo che avesse bisogno di bere, dopo tutto quello che era successo. Infilai un dito nell’acqua della ciotolina e, approfittando del suo beccuccio aperto, gli feci scivolare dentro una goccia. Rimediai una beccata. Ma l’uccellino deglutì quella lacrima d’acqua. Ci provai ancora tre o quattro volte. Il piccolo non mi beccava più. Beveva con avidità. Era bellissimo. Tutto tondo. Sembrava una pallina. Dopo un po’ cominciò a zampettare nella scatola e noi iniziammo a sperare che si potesse salvare.
Nel primo pomeriggio la situazione era ancora invariata. Gli mettemmo vicino una susina appena staccata dall’albero e divisa in pezzi. Caso mai avesse avuto fame. Ma lui la ignorò. Verso le quattro il cucciolo d’uccello emise un debole pigolio. Il primo. A cui, in breve tempo, ne seguirono altri, più forti, più chiari. Il suo non era un canto, ma nemmeno un lamento. Pareva piuttosto un richiamo.
Poco dopo il cielo fu tutto un ciangottio. Era la sua mamma! L’aveva trovato! Gli volava sopra con un continuo “cicciccip”. Pensammo di togliere il piccolo dalla scatola per facilitare l’incontro. Ma il cucciolotto aveva accennato un piccolo volo e si era già fatto strada tra i raggi della vecchia ruota di bicicletta. La merla gli era molto vicina e lo incitava. L’uccellino spiccò un altro volo piccino e atterrò dolcemente sul pavimento del patio. Ai suoi brevi e isolati “cip”, rispondeva una miriade di esortanti cinguettii della mamma. Svolazzando raso terra lui arrivò sotto agli oleandri. Poi spiccò un volo un poco più alto e finì su un cespuglio di ortensie. Infine mamma uccello e figlioletto raggiunsero i rami di un ulivo. Salvo!
Verso sera, sorridente e con passo felpato, fece capolino Eva. Ci lanciò un “miao”, uno solo, e dopo una strusciatina sulle gambe, andò a sonnecchiare sul solito muretto. Per lei non era successo niente di strano, non era stata sfiorata nessuna tragedia. Del resto lei non aveva colpe, la natura è così. Eva è una gatta e, da gatta, ha il suo codice.

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