Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

venerdì 8 aprile 2016

Un riccetto spettinato




“Un riccetto spettinato”, di Antonella Tomaselli (Storia vera di Massimo Vacchetta, da “Confidenze tra amiche”, numero 14, 2016)


A volte basta proprio poco perché ti si cambi la vita. Per me fu giusto il tempo di un respiro trattenuto, mentre il cuore veniva invaso da emozioni note eppure nuove, come risvegliate da un torpore che le aveva tenute quiete e prigioniere a lungo.
Ero nell’ambulatorio di Andrea. Siamo due veterinari, in genere lui si occupa di piccoli animali e io di bovini. L’avrei sostituito durante il fine settimana e mi stava passando le ultime istruzioni. Si avvicinò a una scatola di scarpe e me la porse. «Qui c’è un cucciolo di riccio. E’ un orfanello. Una signora l’ha trovato in giardino. Gli devi dare del latte di capra un paio di volte al giorno» mi disse. Sentivo la sua voce ovattata, come se provenisse da luoghi lontani. Io ero catturato da altro: ero totalmente incantato dal riccetto spettinato che si muoveva piano tra striscioline di carta.
Lì ci fu quel mio respiro trattenuto, mentre ammiravo quel cucciolo nato forse da un paio di giorni. Pesava venticinque grammi. Avete presente venticinque grammi? Un niente. Eppure quel nonnulla racchiudeva tutta la meraviglia della vita.
Per il mio lavoro ero avvezzo al dolore degli animali, purtroppo. Avevo giocoforza creato uno scudo che mi permetteva un certo distacco. Uno scudo che in un attimo andò in frantumi davanti a quella creaturina. Provai infatti una pena grandissima. Infinita.
Ancora piuttosto turbato diedi al cucciolino un po’ di latte, goccia a goccia, aiutandomi con una siringa da insulina a cui avevo tolto l’ago. Più tardi salutai Andrea e andai a casa. Ma negli occhi mi rimase l’immagine di quel fragile e indifeso animaletto.
Il mattino dopo tornai nell’ambulatorio. Per prima cosa volevo controllare il piccolo riccio. Appena aperta la porta udii un pianto. Un flebile e continuo gemito. Sembrava il lamento di un uccellino. Stringeva il cuore. Proveniva dalla scatola di scarpe. Era lui, il riccetto, che piangeva. Lo presi tra le mani. Era freddo. Troppo. In una frazione di secondo pensai: “Uno: stiamo sbagliando tutto con questo piccolino; due: è urgente scaldarlo; tre: devo cercare informazioni per prendermene cura in modo corretto. Mi attivai in un lampo, era una lotta contro il tempo. Posi una boule di acqua tiepida accanto al cucciolo e mi catapultai in una rapida ricerca via internet. Trovai subito Giulia e Gerardo, due esperti di ricci, e avviai con loro una stretta attività di sms che si accavallava a messaggi in chat. Il latte di capra, per cominciare non andava bene, ci voleva latte in polvere per cuccioli di cane. Chiamai i negozi per animali dei dintorni, ma nessuno ne era provvisto. La mia tensione aumentava. Nel frattempo nutrivo il piccolino ancora con latte di capra: non avevo di meglio. Mi rendevo conto che lui si indeboliva sempre di più, era ormai poco vitale. Finalmente reperii il latte in polvere e diedi il via a questa alimentazione più adeguata. Il cucciolo non mollava, io nemmeno. Gli davo da mangiare ogni tre ore, giorno e notte. Non era facile, dovevo dividermi tra il riccetto, il mio lavoro, il bisogno di dormire e cento altre faccende di ordinaria quotidianità. Dopo un mese e mezzo io ero uno straccio, ma lui era cresciuto. E stava benone! Scoprii che il piccolino era una femminuccia. Era ormai tempo di darle un nome. La chiamai Ninna, ispirato da “Ninna nanna”, visto che - beata lei - dormiva e mangiava e poi dormiva ancora. Ogni volta che la osservavo, la piccola Ninna mi faceva riflettere sulla preziosità della vita, sui prodigi della natura, e sull’inutilità di certi oggetti, di certe azioni. Mi sembrava, guardando lei, che mi fosse più agile arrivare all’essenziale in ogni cosa.
Ninna raggiunse il peso di ottocento grammi. Era il momento di lasciarla andare, di restituirle la libertà. E questo era un problema. La piccola si era molto affezionata a me. E io a lei. Per lei, in pratica, io ero la sua mamma. L'avevo maneggiata fin dai primi giorni di vita. Quando aveva aperto gli occhi per la prima volta aveva visto me. Ormai mi bastava chiamarla e lei, ovunque fosse, mi correva incontro. Se la prendevo in braccio mi leccava tutta la faccia. Come un cagnolino. La sera, quando rientravo dopo il lavoro, io e lei andavamo a spasso per campagne e boschi. Lei mi precedeva veloce. Si fermava di tanto in tanto per controllare che la seguissi, e poi riprendeva tranquilla la passeggiata. Era fantastica mentre esplorava il sottobosco. La lasciavo fare, ma ero sempre all’erta. Un’indipendenza vigilata e limitata, quella che le concedevo. Regalavo alla piccolina un angolino di libertà e poi la riportavo in prigione… Non riuscivo a lasciarla andare. Lei forse era pronta? Non lo so. Io non ancora. Nel frattempo prendeva sempre più forma un progetto ispirato proprio da lei. Infatti mi chiedevo: «Perché non aiutare anche altri ricci?». Ninna stava cambiando il percorso della mia vita, rendendolo migliore. Aveva accresciuto la mia voglia di aiutare i più deboli, i più dimenticati. Perché ogni creatura - anche la più piccola - è preziosa, e insieme alle altre è indispensabile per completare la meraviglia dell’universo. E perché è nei gesti d’amore che trovi il senso della vita.
Telefonai al direttore del centro per il recupero degli animali selvatici di Cuneo e gli esposi la mia idea. Ne fu entusiasta e così ora sono il responsabile del Centro Recupero Ricci “La Ninna”, di Novello. E i ricci arrivano da tutte le parti. Li curo, e quando sono di nuovo nel pieno delle forze, li restituisco al loro mondo. Non tutti, alcuni sono qui permanentemente perché disabili, come Camillo che ha una zampa amputata, o come Sissi che è cieca da un occhio. I ricci sono fantastici, ognuno col proprio carattere: c’è lo scontroso, c’è la dolcissima, la curiosona, l’attaccabrighe, il timidone, e chi più ne ha, più ne metta. E la mia piccola Ninna? La liberai l’estate successiva, non mi permisi altri tentennamenti dettati dal mio egoismo. La portai nel giardino naturale di un’amica. Un giardino stupendo, con cespugli di more e di lamponi, prossimo all’aperta campagna. Là lasciai la mia Ninna. L’abbracciai mentre mi ripetevo: «Ora o mai più». Mi si spezzava il cuore, ma la lasciai andare. Le dovevo quel gesto d’amore. Come si fa a sentirsi disperati e felici nello stesso tempo? Non lo so, ma era ciò che provavo. Già mi mancava la mia piccolina, eppure ero felice per lei che avrebbe vissuto la piena libertà.
Non la rividi mai più.
Ho acquistato un pezzo di terra per realizzare un piccolo parco naturale per i ricci e altri animali selvatici. Un sogno che spero si avveri al più presto. A volte la sera vado lì. Mi siedo su quel bel prato pullulante di vita, al confine col bosco, e chiamo: «Ninna!». E in certe sere magiche, quelle rubate alle favole, lei arriva. Mentre gli alberi si offrono alle carezze del vento, in qualche modo, lei arriva.

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