Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

martedì 4 aprile 2017

Ferdinanda fa miracoli



“Ferdinanda fa miracoli”, di Antonella Tomaselli (storia vera di Ferdinanda Salvini, da “Confidenze tra amiche”, numero 14, 2017)



A pochi passi da casa mia c’è un bosco. Conosco i suoi alberi uno per uno. Alcuni li ho piantati io. Metto un seme in un vaso e quando la piantina che ne è nata è abbastanza forte, la porto là e la piazzo in piena terra. Scelgo alberi autoctoni, ma anche no. Per la nascita di ogni bimbo che conosco semino un ginkgo biloba. Ho cominciato con mia figlia Elena. Il suo giovane albero è bello e forte. Come lei.
Adoro la natura e gli animali da sempre. Già da piccola soccorrevo ogni uccellino caduto dal nido, ogni micino sperduto. Crescendo ho accentuato questo atteggiamento. E mio marito è stato, e lo è tuttora, sempre pronto a darmi una mano. Nei dintorni, chi trova un animaletto bisognoso, me lo porta. Io me ne prendo cura. E quando sta bene lo libero nel suo habitat naturale, se è un animale selvatico, oppure me lo tengo, se si tratta di un animale domestico. Tempo fa allevai un picchio verde. Eh, una storia curiosa questa! Faccio la guida per la Pro Loco di Morgano e avevo portato una scolaresca alle vicine sorgenti del fiume Sile. Interrompemmo la nostra passeggiata quando udimmo delle piccole grida. Ci zittimmo tutti: un attimo con le orecchie tese e di nuovo sentimmo quella specie di pianto. Mi girai di scatto e vidi una cornacchia che tratteneva qualcosa tra gli artigli. Istintivamente mi precipitai verso di lei. E lei fuggì. Due salti rapidi e prese il volo, lasciando la sua preda: un uccellino. Un esserino fragile, coperto solo da un leggero piumino. Un batuffolo. Me lo portai a casa. Gli diedi da mangiare, imboccandolo con attenzione. Era il 9 giugno. Ricordo con esattezza la data perché mi appunto sempre tutto su un mio quaderno. Misi il piccolino in una gabbia ampia a forma di pagoda che avevo piazzato, tempo prima, in mezzo al bosco. Ero da lui ogni momento possibile. Lo chiamavo mentre arrivavo, facendo il suo verso: «Chiù, chiù». E lui rispondeva: «Chiù, chiù». Era un picchio verde. Qui da noi c’è solo il picchio rosso maggiore. Chissà da dove l’aveva portato quella cornacchia. Il piccolo cresceva e giunse il momento di insegnargli a mangiare da solo. Cercai nel bosco e trovai ciò che faceva al caso mio: un albero sul cui tronco c’era un bell’andirivieni di formiche. Misi il picchio verde alla base e il piccolo si aggrappò alla corteccia. Catturò una formica. E un’altra. E poi andò più su. E ancora. Corsi a prendere una scala che appoggiai all’albero, e salii pure io. Così avrei potuto recuperare il picchio, a pranzo concluso. Una scena fantastica seguita da un pubblico attento: la mia cagnolina Rosetta, la gatta Morgana e Apollo, una delle mie oche. Arrivò il giorno della liberazione: ormai il piccolo mangiava da solo e le membrane delle ali si erano aperte. L’avevo già aiutato anche in brevi prove di volo. Non potevo più indugiare. Lo portai alle sorgenti del Sile. Era il 23 giugno. Cercavo l’albero giusto. Ma mica c’era in quel bosco. Uno aveva il tronco troppo liscio, l’altro era troppo basso, quell’altro era troppo alto. Bugie. È che mi dispiaceva separarmi dal picchio. Era stato con me solo due settimane, ma mi ci ero così affezionata… Mi feci forza, per il suo bene. L’appoggiai alla base di un albero. Lui cominciò a salire. Non resistetti, lo presi e lo rimisi in basso. Si arrampicò nuovamente. Ma si fermò quasi subito. Si girò a guardarmi. Sembrava che mi chiedesse il permesso di salire ancora. Le mie mani si mossero da sole per riprenderlo. Ma mi frenai e le strinsi dietro la schiena. E così rimasi: immobile, ma in preda a una furiosa tachicardia. Il picchio ricominciò a salire. Si fermò a guardarmi ancora due o tre volte. Io gli sorridevo e stringevo ancor di più le mani. Arrivò in cima. Raggi di sole trovavano la strada tra le fronde e accendevano i suoi colori. Lo vidi spiccare il volo e raggiungere la punta di un albero vicino. E poi di un altro più alto. Gli occhi inondati di lacrime mi impedirono di seguirlo ancora. Ero triste, ma felice per lui. «Bada a te stesso, piccolino» gridai tra pianto e spruzzi di risatine.
Non finì così. Il 7 ottobre ero davanti a casa quando mio marito mi gridò: «Ferdinanda, ascolta!». Mi fermai di botto. Dal bosco qualcuno mi chiamava: «Chiù, chiù». Risposi immediatamente: «Chiù, chiù» e presi a correre verso gli alberi. Era il picchio verde. Era aggrappato alla gabbia a forma di pagoda. Che felicità! Aveva nidificato in zona. È proprio qui che vive ormai. E spesso viene a salutarmi.
Prima ho citato Apollo, una delle mie oche. A tenergli compagnia c’erano Platone e Cesira – i suoi genitori – e Lucrezia. C’era anche Cesare: mi era stato affidato da un allevatore, perché era un paperino molto debole e malato. Con le mie cure e il mio amore, guarì e diventò grande e forte. A malincuore - ma quel che è giusto, è giusto - un giorno lo riportai dall’allevatore, suo legittimo proprietario. Di notte squillò il telefono. Era un vicino: «C’è una tua oca sul mio terrazzino». Mi precipitai là. Era Cesare. Si era fatto un volo di sei chilometri per tornare da me. Dopo la gioia di rivederlo, purtroppo dovetti affrontare il cruccio di riportarlo da dove era fuggito. Ma Cesare cominciò un ostinato sciopero della fame. Mi chiamò l’allevatore: «L’oca non mangia da diversi giorni, adesso è stesa a terra nel cortile. Se non è già morta, poco ci manca». Salii in macchina e guidai più veloce che potevo. Ma non arrivai in tempo. Cesare era morto. Lo presi in braccio e lo distesi sui sedili dell’auto. L’avrei riportato da me e gli avrei dato almeno una degna sepoltura. Nei pressi di casa le altre mie oche mi accolsero starnazzando, come sempre. Be’, fu in quel preciso momento che mi parve che Cesare si muovesse. Un nanosecondo e dal suo becco uscì un fioco “Vi vi vi”. Aprii la portiera e lui – resuscitato? – corse verso le altre oche. Guardavo la scena allibita. E mi veniva pure da ridere. Ma non era mica morto? Tutto il gruppo, lui compreso, starnazzava con grande eccitazione. Chissà cosa si raccontavano. Cesare riprese a mangiare. E io decisi che non avrebbe mai più lasciato casa mia.
Le mie mani hanno curato e allevato tanti animaletti. Potrei raccontare dei rondoni che salvo e lancio nel cielo quando sono pronti. Del piccolo pipistrello che qualcuno mi ha portato giorni fa. Dei torcicolli, dei fagiani, di un merlo bianco e nero, dei piccoli ghiri e di tanti altri ancora. Tutti liberati, quando stavano bene. Aiuto anche i rospi ad attraversare la strada. Scendono dalla montagnetta vicina, per arrivare alla meta: le pozzanghere attigue al Piave. Ma il percorso è attraversato da una strada trafficata. Per questo vado là, li raccolgo in un secchio e li porto dall’altra parte della carreggiata. Così possono riprendere incolumi il viaggio.
Sono tanto felice. Qualcuno dice che faccio miracoli. Io dico invece che è l’amore che fa i miracoli. Sempre.

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