"Oggi mi sento fortunato come un gatto", di Antonella Tomaselli (Storia vera di Tino B., da"Confidenze tra amiche", numero 47, 2010)
E’ quasi mezzanotte e si annuncia un brutto temporale, lampi e tuoni scuotono il cielo e l’aria. Fra poco me ne andrò a letto. La temperatura si è fatta più fresca e prendo un leggero plaid. E’ il momento dei miei riti serotini: un bicchierino di cognac accompagnato da un buon sigaro e da un po’ di televisione. Qualche voluttuosa boccata, un sorso di liquore e vengo raggiunto da un rumore secco e ripetuto: è la persiana di una finestra sbattuta dal vento.
Un altro goccio, e, se non smette, mi alzerò e andrò a chiudere.
Non smette, mettendo a dura prova la mia pazienza e rovinando il mio cerimoniale.
Cerco di resistere, ma ad un tratto manca l’elettricità. Al buio completo, interrotto solo dai lampi che si susseguono veloci e i cui bagliori mi raggiungono dalla finestra con la persiana che sbatte, cerco a tentoni la torcia che tengo in un cassetto della cucina. Vado a controllare il quadro elettrico: tutto in ordine. Mi avvicino alla finestra e mi rendo conto che l’elettricità manca dappertutto, anche nel paesino più a valle.
Mentre sto cercando di chiudere la persiana mi sembra di sentire un lamento.
Tendo l’orecchio: forse è un uccello, forse è semplicemente il vento. Non riesco a percepire distintamente, ma a tratti, eccolo di nuovo, flebile e lontano, quasi un gemito.
Adesso comincia a piovere. Goccioloni pesanti, resi più sferzanti dal vento divenuto violento e rapido. Non sento più il lamento, ma mi trattiene il pensiero che il rumore della pioggia possa coprire il suo fievole suono.
Chiudo la finestra e poi esco sotto il porticato di casa. Guardo a lungo verso il confine, dove comincia il bosco. Proprio da laggiù mi sembrava che provenisse quella specie di mugolio. Ma non scorgo nulla. E' troppo buio. I sensi sono tesi, pronti a cogliere qualsiasi piccolo segnale, ma tutto sembra normale, a parte il temporale prepotente. E lì, spettatore della furia del cielo, mi abbandono su una poltrona di vimini. Sorrido e penso a Laura, mia moglie. Ci fosse ancora lei, non mi avrebbe permesso di uscire in piena notte. Lei era sempre prudente e forse anche un pochino paurosa. Non l’ho vista invecchiare. Una nostalgia amara mi invade e mentre il temporale continua a scatenarsi, mi perdo nei ricordi. Tanti anni fa, mi sembrano secoli e allo stesso tempo mi sembra ieri, tanti anni fa Laura volò in cielo, tre giorni dopo un banalissimo intervento chirurgico. Ricordo il suo ultimo sguardo, quei suoi occhi scuri, immensi e smarriti, che mi chiedevano aiuto, prima che la luce della vita si facesse più lontana. Mi passo una mano sulla fronte, come per scacciare questo pensiero e mi rifugio nei ricordi più sereni, dei flash: lei che rideva dondolandosi sull’altalena del giardino, lei buffamente contrariata, seduta per terra accanto ad una valigia che non poteva contenere tutte le cose che voleva farci entrare, lei che piangeva guardando i film d’amore, lei che saltellava di gioia mentre mi annunciava qualche buona notizia, lei… Per più di un anno, dopo la sua morte, avevo lasciato la sua voce argentina –come una musica di campanellini - nella segreteria telefonica. Quante volte ho chiamato il numero di casa per sentirla: mi sembrava di averla ancora lì, e che avrei potuto raggiungerla più tardi. Gli amici e i colleghi più volte avevano cercato di riempire la mia solitudine con incontri che combinavano a mia insaputa. E così mi invitavano a cena e una volta mi presentavano un’amica, una volta un’altra. Ma erano sforzi vani, non avevo voglia di altre donne. Il tempo passava inesorabile e io mi chiudevo in me stesso sempre di più.
Mi strappo con fatica dai viaggi dei miei pensieri, il temporale si è ormai allontanato, e io scruto di nuovo l’orizzonte in direzione del bosco, e ancora ascolto: sento solo il rumore del gocciolare delle foglie. Niente altro nel nero della notte, impregnato dall’odore della terra bagnata.
Forse ho solo immaginato quel lamento. Rientro e vado a letto.
Il giorno dopo mi alzo tardi e mi accingo alle mie solite mansioni di pensionato. Certo quando lavoravo c’era sempre da correre, ma adesso mi piace scandire il tempo con l’orologio solare. Mi affaccio alla finestra e dalla posizione del sole ipotizzo che siano le otto e mezza.
Ad un tratto sento ancora quel lamento, trattengo il respiro per udire meglio. Mi sembra un gatto. Mi precipito fuori e con passo veloce vado verso il bosco. Cammino e cerco per ore a destra e a sinistra, pronto a cogliere ogni indizio, ma non trovo niente.
Be’, se è un gatto, è un gatto che ha bisogno d’aiuto!
Di nuovo perlustro una buona parte di boscaglia. Sembra un gioco tragico: probabilmente quando mi avvicino il micio ha paura e smette di lamentarsi e così io non riesco a trovarlo. Tra i rami scorgo il sole ormai basso nel cielo. Decisamente frustrato decido di mollare e torno a casa.
Il giorno dopo, prestissimo, vengo svegliato dal suono brusco e ripetuto del campanello. Mi stropiccio gli occhi mentre impreco sottovoce. Mi dirigo al citofono, e senza chiedere chi è, schiaccio il pulsante per aprire il cancello. Apro la porta e vedo, nella luce fresca dell’alba, una donna piuttosto agitata che si avvicina, scortata da un grosso cane. So chi è, è una tipa che abita in una casa vicino alla mia. Non ci siamo mai presentati e non ci siamo nemmeno mai scambiati un cenno di saluto. Le chiedo che cosa vuole.
Lei indugia scusandosi per l’ora inadeguata e dice che non vorrebbe disturbarmi e che penserò che è una pazza, e aggiunge decine e decine di parole inutili. Seccato per essere stato strappato dal sonno e per dover interloquire con qualcuno a quell’ora, l’apostrofo sgarbatamente imponendole di arrivare al punto. Il suo grosso cane beige si mette a ringhiare, la donna ammutolisce e indica il bosco con gli occhi sgranati. Sentiamo tutti una specie di miagolio. Appena cessa il lamento la donna mi dice che certamente c’è un gatto in pericolo, che lo sente da un giorno e due notti, che è andata a cercare, ma non ha trovato niente, ma che adesso non ce la fa più, e che questo gatto potrebbe essere ferito e che dobbiamo aiutarlo e che … Fermo di nuovo il suo fiume di parole e le dico che l’ho cercato anch’io, ma invano e poi butto lì, giusto per togliermela di torno: "Ma non si preoccupi, vedrà che riuscirà a cavarsela: i gatti hanno sette vite."
Però lei non vuole sentire ragioni e vuole che andiamo a cercarlo insieme, tanto più che ormai c’è la luce del giorno. E che, inoltre, l’unione fa la forza. E poi, che lei è troppo in ansia.
Mi arrendo, d’altra parte anch’io sento quel miagolio come una spina nel cuore. Non le dico di entrare, la faccio aspettare una decina di minuti in giardino, mi vesto e la raggiungo. Insieme, accompagnati dal suo cane, ci dirigiamo verso il bosco. La mattina è bella e anche se mi chiedo cosa ci faccio in compagnia di questa semi - sconosciuta, mi sento determinato a trovare il gatto. Se non ci riesco nemmeno questa volta chiamerò i vigili, o il corpo forestale. La donna riprende a parlare, ma la zittisco dicendo che è meglio non fiatare, dobbiamo fare meno rumore possibile, se vogliamo scoprire da dove viene il miagolio. E aggiungo che anche il suo cane deve fare meno confusione. Camminiamo in lungo e in largo per ore, ritornando ogni volta sui nostri passi. Il cane, che si chiama Leone, non è di nessun aiuto, anzi, sembra volersi godere la passeggiata e alterna corse esagerate a frenate improvvise. Annusa alberi, ceppi, tane. Rincorre farfalle. Marchia il territorio. Un cane inutile. Lei si chiama Giuliana, ma vuole che la chiami Giuly. Stiamo ancora zigzagando quando finalmente sentiamo il miagolio molto vicino, debole, ma vicino. Ci fermiamo all’istante, ci guardiamo negli occhi e io le faccio cenno di camminare piano, mentre le indico quello che ormai penso sia il punto preciso. Ci siamo già passati due o tre volte, anche ieri ci sono passato, eppure mi sento sicuro: il gatto è lì. Ma non troviamo niente. Non ci capacitiamo. Guardiamo tra i rovi e nei cespugli: nulla. Giuly si siede per terra stanca e scoraggiata, il suo cane è altrove, io ancora perlustro ostinatamente la zona. Infine mi giro verso di lei per dirle che è ora di mollare, che non ce l’abbiamo fatta, e la vedo con il viso proteso verso i rami di un albero, attenta. Un istante e la trovo bella.
Le grido che dobbiamo tornare a casa. Sbucato dal nulla, Leone è al suo fianco. Giuly mi dice di avvicinarmi perché c’è una cosa strana. Siamo lì tutti e tre che guardiamo in alto. Il cane prende ad abbaiare con forza. Un abbaio strambo, agitato, inframmezzato da inquietanti guaiti.
Sul ramo di una grande quercia c’è una busta di plastica, una di quelle del supermercato. Sembra legata, certamente lo è. E sembra che contenga qualcosa. Stiamo guardando pensierosi quando dalla busta esce un debole miagolio.
L’abbiamo trovato.
Ma recuperarlo non è semplice. Cerco di arrampicarmi, ma non sono abbastanza agile. Decidiamo che io mi appoggio al tronco e incrocio le mani e che Giuly ci deve salire per arrivare al ramo più basso: da lì dovrebbe riuscire ad afferrare la busta.
Lei si posiziona sulle mie mani, poi sale, un piede per volta, sulle mie spalle. Mi ritrovo a pensare che questa donna pesa mica da ridere: è una falsa magra.
Quando è sul ramo più basso, si sporge verso la busta, si allunga il più possibile e riesce ad afferrarla e a slegarla. La tiene ancora chiusa con le mani mentre si appresta a scendere con cautela. L’aiuto come posso e quando è a terra apriamo la borsa di plastica: c’è un gattino. Sembra molto debole, ma ha ancora la grinta per mostrarci i dentini aguzzi e per soffiare verso di noi. Quando cerchiamo di prenderlo ci fa sentire le sue unghiette.
E’ grigio e bianco, e ha un bel musino addobbato da baffetti corti. Gli occhi hanno un contorno di pelo bianchissimo. Un disegno di righe scure sulla fronte e sulla testa, lo fa sembrare una piccola tigre. E’ spaventato, ma è vivo. Giuly mi dice che dobbiamo portare il piccolo da un veterinario. Usciamo dal bosco così, come un piccolo corteo: Giuly in testa, con il gattino tra le braccia, e io e Leone al seguito. Prendo l’auto e andiamo in paese dal veterinario. Vista l’urgenza ci riceve subito. Mentre il gattino viene visitato Giuly mi dà un buon numero di piccoli pizzicotti sul braccio. Per un po’ faccio finta di niente, poi mi volto interrogativo verso di lei, ma lei subito mi chiede di scusarla: è molto nervosa e questo è il suo modo per scaricare la tensione. Sorrido per gentilezza, ma penso che sia ben strampalata. Mi chiedo come si permetta di trattarmi in modo così confidenziale. E mi ritorna graffiante un po’ di malumore, che però scompare quando il veterinario dice che siamo arrivati in tempo: il micio è debole per la brutta avventura ed è disidratato, ma è sano e vivrà.
Chi l’ha chiuso nel sacchetto di plastica e appeso al ramo di un albero nel bosco è certamente un essere inqualificabile, mi chiedo come si possa essere così brutali da compiere un gesto di tale efferata violenza su una creatura di Dio.
Se non l’avessimo trovato e soccorso questo povero gattino, avrebbe fatto davvero una brutta fine. Quando ci congediamo dal veterinario Giuly mi dice che lo devo tenere io il micetto, lei non può, ha già il suo cagnolone.
Credo che abbia ragione, ma non sono pronto, non posso occuparmi del piccolo, non sono organizzato. Ma altre soluzioni non ci sono e lei aggiunge che mi aiuterà.
Così mi ritrovo, a sorpresa, con un micio da curare e accudire, e non so nemmeno da che parte cominciare. Tornando a casa compriamo un po’ di latte, e appena arrivati, lo scaldiamo e lo proponiamo a Fortunello; l’abbiamo chiamato così perché Giuly dice che porta bene e che lui ha bisogno di un po’ di fortuna.
Il piccolo si avvicina al piattino di latte e lappa avidamente. Siamo tutti contenti. Io anche piuttosto sorpreso per tutti gli eventi e per la giornata così movimentata e così lontana dalle mie abitudini tanto precise e ripetitive.
Fortunello mi sconvolgerà la vita. D’altra parte comincia a piacermi questo piccolo dagli occhi di smeraldo scintillante. Leone ogni tanto lo annusa incuriosito, poi comincia a leccargli il muso, là dove è rimasto un po’ di latte. E’ una scena troppo simpatica e io e Giuly scoppiamo a ridere divertiti.
Mi rivolgo a lei e le dico che dobbiamo festeggiare il salvataggio di Fortunello con una bella cenetta e un vino speciale. Giuly risponde subito di sì e aggiunge che la cena la preparerà a casa sua e poi la porterà qui. Con l’immagine di lei che scompare veloce dietro la porta, seguita dal suo cane, mi ritrovo a pensare che forse la mia vita è a una svolta.
Prendo tra le braccia Fortunello e mentre lo accarezzo dietro a un orecchio, lui comincia a fare le fusa: un rumore piccolo, profondo, roco, ovattato, ritmico. Mi sento pervadere da un nuovo benessere, e io e il micio, rimaniamo così. In attesa di Giuly e di Leone.
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