Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

lunedì 14 aprile 2014

Non aver paura





"Non aver paura", di Antonella Tomaselli (Storia vera di Lietta Manganelli, da "Confidenze tra amiche", numero 14, 2014)

Sono distesa sul divano, in compagnia di un libro del mio scrittore preferito, mio padre. Così mi sembra di averlo più vicino. Sono convalescente, ho appena lasciato alle spalle un doloroso fuoco di Sant’Antonio e, ora, prurito e bruciore stanno finalmente scomparendo. I miei cinque cani e i miei due gatti ricoprono il ruolo di premurosi  infermieri. Non mi lasciano sola un attimo. Tutti spaparanzati sul tappeto, vicino a me. Sonnecchiano, uno accanto all’altro. Ve li presento: Sara, Lucy, Freddy, Yellow e Charlotte, sono i cani, e Salomè e Miriam sono i gatti. Lucy ora
muove un po’ le orecchie. Si stira e si guarda intorno. Poi si avvicina a me e si intrufola con il muso sotto al mio braccio, spingendo un po': è il suo modo per reclamare coccole.
Allungo una mano per accarezzarla, e i miei pensieri ineluttabilmente scivolano verso la mia Betty. Vi ho già raccontato di lei proprio su queste pagine: “Piccola Betty”, vi ricordate? Betty era la mia bambina affetta da acondroplasia atipica, e da un sacco di altre cose. Ma soprattutto era la mia bambina che aveva una meravigliosa capacità d’amore e tanta voglia di felicità. Era la mia bellissima figlia adottiva, che prima di morire mi aveva dettato “Le favole di Betty”, un libro per aiutare la ricerca e i malati. Mia figlia, una dozzina di anni fa, salvò la vita a Lucy. Come? Devo partire da una premessa: Betty, come del resto tutti in famiglia, amava tanto gli animali. Però lei aveva qualcosa in più, era magica quando "parlava" con loro. Aveva infatti una straordinaria e innata capacità di comunicare con tutta la fauna che ci circondava.
Non aveva mai paura e forse gli animali percepivano anche questo. Si avvicinava a loro con una serenità assoluta e come un fluido che scorre da un capo all’altro, o come un profumo che si espande, la connessione semplicemente aveva luogo.
Betty trasmetteva tranquillità con il suono della sua voce, con i gesti, con lo sguardo.
In primis, dunque aveva il potere di calmarli e di farli sentire al sicuro. Poi passava al gradino successivo: l’invito all’interazione.
Questa sua dote era ampiamente conosciuta dalle persone che ci circondavano e quando si sparse ancor più la voce cominciarono a interpellarci perfino i vigili del paese. Infatti se si presentava qualche situazione particolare chiedevano aiuto a lei. Così accadde per Lucy. Ci telefonarono dicendo che diverse persone si erano lamentate a causa di un cane furioso che da diversi giorni si aggirava nei dintorni. Quella “bestia” si infilava dappertutto, persino nei negozi e nei ristoranti. Qualcuno l’aveva allontanata usando addirittura dei forconi. Tutti ne avevano paura e raccontavano che aveva la bava alla bocca e ringhiava con inaudita ferocia. I vigili ci chiesero se Betty se la sentiva di dar loro una mano. Naturalmente mia figlia rispose subito di sì. Arrivammo, io e lei, nel posto che ci avevano indicato, un cascinale nelle campagne di Coltano. Quasi in simultanea giunsero i vigili, ci dissero che loro erano pronti a sparare al cane, che ormai era ritenuto decisamente pericoloso. La “bestia” rabbiosa era poco distante. Betty mi disse sottovoce: "Mamma, sembra uno straccetto di peluche nero. E' magro da far paura. E quanto è sporco, poveretto. Guarda come tiene le orecchie incollate alla testa e la coda tra le zampe. Più che feroce, a me sembra che abbia una fifa blu. Mi fa tanta pena. Chiedi ai vigili che ci lascino sole con lui". Loro acconsentirono.
Quindi mia figlia s'incamminò lentamente verso la "belva". Quando fu molto vicino gli parlò con dolcezza: “Piccolino, cosa ti hanno fatto?”. Il cane ascoltava. Betty proseguì: “Non avere paura, vuoi venire con noi?”. Quindi, con calma, gli voltò le spalle e andò verso la nostra automobile. Spalancò lo sportello posteriore e, aperta anche la portiera anteriore, si sedette accanto al posto di guida. Il cane si avvicinò e con un balzo saltò sul sedile posteriore dell’auto. Betty mi guardò felice.
Lo portammo immediatamente dal veterinario che ci disse che era una femmina, che era seriamente deperita e che era incinta. Tornammo a casa e mi sembra ancora di sentire Betty: “Mamma, ti va se la chiamiamo Lucy?”.
Per i primi tempi non fu facilissima da trattare, andava però d’accordo con mia figlia e tanto bastava. Quando le facemmo fare il bagno scoprimmo il suo colore: nero focato, con qualche fiammata bianca sul petto e sulla punta dei piedi. In un angolo della casa le preparammo una confortevole cuccia, perché vi partorisse i suoi piccoli. Ma quando giunse il momento Lucy la ignorò: andò in giardino, scavò una buca e vi scodellò due grossi cuccioli. Nessuno poteva avvicinarsi perché aveva ricominciato a mostrare i denti in modo poco amichevole a tutti.
Eccezion fatta per Betty, naturalmente.
Infatti lei la raggiunse, le sfilò da sotto la pancia i cuccioli e li portò nella cuccetta precedentemente preparata, mentre le spiegava: “Lucy, è meglio che tu e i tuoi figli stiate in casa. E’ più sicuro”. Lucy la seguì tranquilla. E da allora non mostrò mai più i denti, escluso quando ride. La guardo adesso, mentre la coccolo: mi è impossibile pensarla come una belva feroce. Poveretta, quanto doveva essere affamata e disperata quando l’avevano creduta addirittura affetta da rabbia.
Betty provava un'empatia straordinaria per tutti gli animali, e se la loro situazione era di sofferenza lei non poteva fare a meno di dare incondizionatamente il suo aiuto e il suo affetto. Aveva una sensibilità e una disponibilità fuori dal comune. Come può avere solo chi ha il cuore colmo d'amore.
Tutti i nostri cani l'aspettavano sempre. Conoscevano gli orari del suo rientro e si preparavano in anticipo.
Quando la sentivano arrivare, abbaiavano festosi e si producevano in mille salti e piroette, e i loro occhi scintillavano. Uno spettacolo.
Lucy ora lambisce il dorso della mia mano, forse ha avvertito la nostalgia che mi sta prendendo e vuole distogliermi da pensieri dolorosi.
Quando Betty ci ha lasciati è mancata tanto anche ai nostri cani. Erano tristi e la cercavano e l’attendevano invano dietro al cancello. A lungo. Interrompendo lo scorrere del tempo solo con qualche sommesso uggiolio. Poi qualcosa è cambiato e loro si sono rasserenati. Non so spiegare il motivo, ma di sicuro ho rilevato un fatto che mai era successo in precedenza: di tanto in tanto, in branco, si mettono ad abbaiare gioiosi in direzione dei posti dove Betty prediligeva sostare, per esempio verso il divano blu del soggiorno o intorno alla sua poltroncina in giardino.
C’è un antico canto degli indiani Navajo che mia figlia adorava, e che comunica un’immagine che sento molto vicina. Ne riporto un piccolo verso:
"Non piangere sulla mia tomba. Io non sono lì,
ma dove tu mi puoi ricordare.”
Ecco, questo è esattamente ciò che a volte io sento, e forse lo sentono anche Lucy e gli altri nostri cani, e i gatti.
Ed è così che io, il mio angelo Betty, e i nostri cari animali, collegati da fili invisibili, ci mescoliamo all’eternità.

1 commento:

Raffaella Gambogi ha detto...

Ancora una bellissima storia vera. Ancora alcune lacrime che scendono lungo il viso e sono lacrime dolci e piacevoli... ho letto un pezzo di felicità!!!!