Il nostro prossimo è tutto ciò che vive (Gandhi)

martedì 15 luglio 2014

Mayfair e il mistero del lago

-diciassettesima puntata-




Arrivò nei pressi di Klosters all’ora di cena. La sua Saab s’inerpicò con una certa difficoltà sulla salita completamente ghiacciata. La lasciò poco dopo, in uno slargo angusto alla fine della strada, già all’interno del bosco. Era una zona ignorata da anima viva durante l’inverno. Una strada senza sbocco, lontana dagli impianti sciistici e dai locali di ristoro... e più su ancora, attraverso il bosco, il suo rifugio segreto, inespugnabile, irraggiungibile e invisibile dalla valle sottostante. Lui l’aveva scoperto da ragazzo, in una delle sue escursioni solitarie, dove sfogava la sua rabbia di esiliato, forzando al limite il suo giovane corpo nella lotta impari con le pendenze più impervie di quella montagna. Riconobbe la carrucola capace di trasportare anche un uomo fino alla piccola baita costruita in un anfratto della roccia, probabilmente da qualche disertore della prima guerra. Soltanto la Bea, quella stupida della Bea, conosceva quel posto. Ce la portava lui adolescente, per divertirsi un po’ senza timore di essere spiato. Sapeva che lei lo chiamava “la tana del diavolo”, e tremava come una foglia al solo pensiero di varcarne la soglia. Ora ci veniva di tanto in tanto per tenerglielo in ordine, sempre rifornito di cibo e coperte, per ogni evenienza. Quando raggiunse il portoncino dovette lavorare parecchio con il chiavistello semiarrugginito. Entrò, finalmente, ma fu investito da un gelo polare. Era stremato dalla stanchezza e non sentiva nemmeno il bisogno di mangiare nonostante fosse a digiuno da ventiquattr’ore. Accese la vecchia stufa militare già carica di legna al centro del locale e, quasi subito, l’ambiente divenne più vivibile. Scaldò un po’ di neve in un pentolino, si preparò un caffé solubile e srotolò il sacco a pelo di fianco alla stufa. Prima di abbandonarsi al sonno pensò con sollievo di avere tutta la notte per riposare: prima delle 11 del mattino dopo, infatti, la Bea non avrebbe potuto farcela a condurre lì la vecchia.
9 gennaio 2001, Olbia, alba.
Fu un vero blitz, quello di Viani in Sardegna. E, per fortuna, tutto filò miracolosamente liscio. Il giornalista aveva dovuto prendere una serie di decisioni a catena, cosa che non era proprio il suo forte, non faceva parte della sua natura cauta e riflessiva. D’altra parte Tonolli non s’era più fatto vivo e lui non aveva avuto molte alternative.
Quasi subito dopo il presunto arrivo all’anonima casella postale di Cagliari del suo telegramma, alla sua altrettanto anonima casella postale di Milano era misteriosamente arrivata una risposta, sotto forma di un messaggio cartaceo piuttosto inquietante. Riportava infatti una sorta di mappa raccontata per punti geografici che, per un buon velista come lui, era di facile interpretazione. Tuttavia non sarebbe stato consigliabile inoltrarsi da solo nel crudo entroterra sardo, soprattutto per quella frase che concludeva le informazioni: “Attenzione, l’agnello è ancora vivo, ma per poco”. Pur sibillina che fosse, non sembrava promettere niente di buono. Così, dopo aver prenotato il primo volo per Olbia, sperando con tutto se stesso di trovarlo, chiamò Pietruccio, un marinaio genovese suo vecchio compagno di pesca, che si era trasferito proprio in quella città. La fortuna fu dalla sua. Pietruccio rispose personalmente al telefono: «Oh belin, ma è lei, dottore! Come sta?» La voce rugosa come la sua faccia, sempre sfatta in un sorriso, e l’inflessione genovese, riportarono di colpo Viani alle interminabili ore di mare, di silenzio e di pesca condivise con quell’omone che sprizzava sicurezza da ogni poro della pelle.
«Ho bisogno di te, Pietruccio.»
«Si va a pesca dottore?»
«Magari, amico mio. Non ti posso dire nulla, per ora. Dovresti trovarti a mezzogiorno all’aereoporto di Olbia. Arriverò con il volo Alisarda 102 da Milano-Linate.»
E il faccione sorridente di Pietruccio fu proprio la prima cosa che Viani scorse al di là delle transenne dell’aeroporto. Si abbracciarono, come due vecchi compari di mare e d’avventura. «Dobbiamo fare una specie di caccia al tesoro, ma adesso non c’è tempo per le spiegazioni. Spero soltanto che tu possieda ancora la tua vecchia jeep.»
«Ma certo dottore. In meno di mezz’ora la recupero.»
Il viaggio fu più breve di quello che Viani immaginava. Le indicazioni erano precise e loro erano bravi navigatori, oltre al fatto non irrilevante che Pietruccio conosceva bene la zona. Già verso le 15 scorsero infatti la casupola bassa, nata evidentemente come ricovero attrezzi, appoggiata a un breve dosso brullo e seminascosta da siepi di mirto. Bastò un calcio del genovese ad abbatterne l’uscio, semimarcio e privo di uno dei due cardini. Per primo entrò Viani. Subito venne assalito dal gelo umido dell’interno che si faceva tutt’uno con il fetore insopportabile di chiuso, di orina e di cibi avariati. Il buio era quasi totale. Quando accese la pila elettrica gli si presentò uno spettacolo raccapricciante. Un uomo di età indefinibile giaceva riverso sopra una vecchia coperta, in mezzo ai suoi stessi escrementi, seminudo, magro come un eremita, la barba lunga, bianco come cera, apparentemente privo di sensi e con la caviglia destra imprigionata da una catena di un metro e mezzo, saldata al muro dietro le sue spalle. Fu faticoso liberare dal ferro quella caviglia martoriata e purulenta. Poi Viani e Pietruccio trascinarono l’uomo all’esterno, lo piazzarono accanto a un falò e lo avvolsero in una coperta. Dopo poco l’uomo, inerme e quasi assiderato, iniziò ad emettere dalle labbra suoni gutturali e senza senso. Un segno di vita, almeno.
«Dottore, qui vicino c’è un pozzo. Possiamo far bollire un po’ d’acqua (se la troviamo!) in questo secchio di ghisa e fargli delle spugnature.»
«Ottima idea.»
Ancora una volta la fortuna li aiutò: l’acqua c’era. Lo spogliarono completamente e lo lavarono con l’acqua calda. Piano piano il livore della pelle si attenuò e divenne candore quasi niveo, di morte. L’uomo muoveva le labbra ma non riprendeva conoscenza. Lo riavvolsero nella coperta.
«Conosci un medico?»
«All’ospedale, dottore.»
«No. Non possiamo andare all’ospedale. Hai un alloggio segreto?»
«Ho solo il mio fisherman.»
«Quanto ci vuole a raggiungere Genova?»
«Dodici ore circa. Ma perché, vuole attraversare, dottore?»
«Questa notte, Pietruccio, questa notte stessa.»
9 gennaio 2001, Milano, ore 9.
Avvertì, nel caldo torrido, una campanella lontana e ovattata. Era nel prato grande di “Villa Guanzani”, poco prima di andare alla messa di ferragosto. «Ma ci dobbiamo proprio andare?» Sbuffava, e la sua piccola mamma con le mani da bambina piene di fiori di campo iniziò a ridere e a correre verso la cappellina di famiglia, scuotendo i lunghi capelli castani raccolti in una treccia. Anche lui tentò di correre ma i suoi piedi sembravano saldati a piombo sulla ghiaia del vialetto. Gridava cercando di fermare sua madre che si allontanava sempre di più, diventando prima un puntino contro il sole e poi più nulla. Ormai non poteva vederla, ma continuava a sentire chiaramente la sua risata che poco a poco si trasformava nel suono di quella campanella lontana, sempre più forte, sempre più forte...
Lo svegliò Mayfair, abbaiando rabbiosamente verso la porta d’ingresso. Qualcuno aveva suonato il campanello. Carlo si alzò con la solita sensazione di vuoto che lo assaliva ogni volta che sognava sua madre.
«Un attimo», gridò con la voce più roca del mondo.
«Buongiorno, dottore!» Una donna corpulenta e sorridente si disegnò fra gli stipiti.
«Oh, la Tilde! Come va? Hai passato bene le feste?» Il ritorno della sua governante lo rassicurava. Carlo l’avrebbe baciata volentieri, ma lo fece lei per prima, con lo slancio dell’affetto vero. La Tilde stava con lui da molti anni, più di quindici per l’esattezza. Quando lei, otto anni prima, era rimasta vedova e sola (i due figli vivevano e lavoravano in Veneto), Carlo le aveva ristrutturato un piccolo abbaino che faceva parte del suo appartamento, ma con un ingresso indipendente e un delizioso terrazzino sui tetti. Discreta, affettuosa, forte, sempre disponibile, profumata di caffelatte e di colonie infantili, era immancabile nel momento del bisogno e sapeva diventare invisibile quando non doveva esserci. Gestiva la casa di Carlo come fosse sua, con amore. Ci veniva tutte le mattine per i mestieri, almeno un paio d’ore, e poi qualche pomeriggio per stirare e cucinare le cene spesso solitarie del suo “dottore”. Quando Carlo aveva voglia di compagnia la chiamava dalla finestra dello studio sul cavedio: «Tildina, mangiamo insieme le tue penne all’arrabbiata?» Anche se aveva già cenato, lei si precipitava, corredata di qualche lavoro a maglia per un qualche nipotino. Gli serviva la cena e poi sferruzzava mentre lui le raccontava i fatti di cui si stava occupando (per lo più politici), assolutamente incomprensibili alla sua mente semplice. E lei lo ascoltava per ore, senza interromperlo se non per sussurrargli: «Lei dottore lavora troppo...» oppure per esternare il massimo dei suoi commenti: «...quelli lì sono tutti uguali, tutti ladri...»
«Cosa votiamo questa volta Tildina?» Domanda terribile per lei: «Oh dottore, quello che dice lei, quello che dice lei... tanto quelli sono tutti uguali, tutti ladri...»
Si sarebbe aspettata qualunque cosa dal suo “dottore” («Lui è un uomo tanto bello, tanto generoso, tanto intelligente, ma così tanto... strano, ecco. Un artista, proprio un artista», così lo descriveva agli altri), qualunque cosa si sarebbe aspettata da lui ma non certo che avrebbe potuto prendersi un cane. E soprattutto... un cane come quello. Era lì, ancora sulla porta, con lo sguardo fisso fra i piedi scalzi di Carlo dove la cagnolina, compostamente accucciata, la osservava compiaciuta dietro la frangetta, dal basso verso l’alto.
«Si chiama Mayfair... l’ho trovata quasi morta. Che ne pensi?»
«Che è stupenda. Vivrà con noi dottore?»
Carlo rise: «Non possiamo più fare a meno uno dell’altra.» Rise anche la Tilde. Era felice di questa novità. «Vado a prepararle il caffé.»
«Fallo anche per te, ti devo raccontare tante cose.» La donna raggiunse la cucina e, per la prima volta, Mayfair lasciò Carlo per seguire l’allegria di quella persona nuova, tutta da studiare. La sua sensibilità di cane le diceva che quella era una di famiglia.

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