-ventunesima puntata-
Sentiva di perdere le forze e il suo primo pensiero fu per Mayfair. Si rivolse alla Mantovani, tenendo la mano destra pigiata contro il fianco dolorante. Il sangue cominciava a filtrare dalla vigogna dei pantaloni attraverso le sue dita aperte.
«Controlli da quale parte è uscito De Mei, se è stato intercettato e se i suoi colleghi sono riusciti a seguirlo. Io devo andare subito in albergo. Ci rivediamo qui al massimo fra un’ora. Mi aspetti.»
«Ma lei sta sanguinando!»
«È soltanto un graffio.»
«Come fa a dirlo?»
Non ci fu risposta. Carlo cadde prima sulle ginocchia, poi stramazzò in avanti, svenuto.
Dopo un tempo a lui indefinibile, ritrovò se stesso sul lettino di un asettico pronto soccorso. Alla sua destra due medici e un’infermiera stavano armeggiando con attrezzi chirurgici, cannule, siringhe, tamponi e altre amenità del genere.
«Che ore sono?»
Tutti lo guardarono interrogativi.
«Quelle heure est-il?» Al solito, stava urlando.
«Cerchi di star calmo, la stiamo medicando. Lei ha perso molto sangue. Comunque se le interessa tanto sono le 21 e 15.» Il medico più anziano aveva parlato in italiano.
«Ottimo. Forse sono ancora in tempo. Scusate, devo andare un attimo in albergo.»
Fece per alzarsi ma la testa gli sembrò di piombo.
«Stia fermo e calmo, altrimenti sarò costretto a farle un’anestesia totale.» Carlo si divincolò, agitatissimo.
«Lei non capisce, vero? Io devo tornare immediatamente in albergo. Una persona mi sta aspettando... ma che fa?»
A un cenno breve del medico anziano, il collega giovane iniettò con la siringa del liquido direttamente nel tubicino della flebo.
Carlo ebbe pochissimi attimi prima di annegare di nuovo nel buio.
«Il mio cane... non può...»
Mayfair in quel momento era felice senza un motivo logico, e lo esprimeva avvoltolandosi di schiena nel pullover, a zampe in aria. Ma quando il suo udito captò il rumore del meccanismo del vecchio ascensore un secondo prima che si fermasse al piano, si rigirò e si bloccò: le orecchie ritte assorbivano le onde di due voci congiunte, una delle quali la colpì al cuore che iniziò a battere più forte. La porta si aprì e comparve quell’uomo che emanava afrore chimico, insieme alla donna che aveva visto poco prima insieme a Carlo, nella hall dell’hotel.
Capì immediatamente che parlavano di lei e si rannicchiò in un angolo. L’uomo le si avvicinò sorridendo, ma nei suoi occhi il cane vide odio e fretta e ansia e insensibilità.
Sapeva che non avrebbe potuto difendersi in alcun modo, ma cercò comunque di scappare, divincolandosi il più possibile nella stretta di quelle mani lunghe, nervose, gelide, dure come morse.
Riaprì gli occhi in una camera in penombra, piena di gente in piedi, china su di lui. Nella nebbia che ancora gli velava la vista, scorse Viani con un sorriso poco convinto, Bamboo in lacrime e, non osava crederci, zia Lucia e l’agente Mantovani in secondo piano.
«Che ore sono?» Riconobbe la voce del chirurgo rivolgersi a qualcuno del gruppo: «Ma che cos’ha con l’ora esatta? Non fa che interessarsi di quello.»
«Carlotto, tesoro, sono le 23. Sei felice di rivedermi viva?» «Sì... sì... e Mayfair?» Il fianco destro bruciava terribilmente.
«Come ti senti, Carlo?» Bamboo gli strinse una mano fra le sue.
«Ho molto dolore al fianco... ma tu hai recuperato Mayfair?»
La ragazza soffocò un singulto. «Mais oui, chérie. La cagnolina è al sicuro.»
Improvvisamente si sentì sveglissimo. Lei gli stava mentendo.
«Dove esattamente al sicuro?» I suoi occhi grigi lampeggiavano. Cercò di mettersi seduto mentre il dolore diventava sempre più insopportabile.
«Stia tranquillo, per carità! Lei ha l’anca ferita fino all’osso, lo vuole capire?» Il medico sbuffò stizzito.
«Dov’è Mayfair?» Carlo insisteva.
«Ha ragione, Tonolli. È inutile tentare di nasconderle la verità. Dopo la sua telefonata, Bamboo ha chiesto a Ghezzi di poter raggiungere subito Strasburgo con un elicottero della polizia. Alle 22, quando si è presentata all’albergo per recuperarla, Mayfair non c’era più. Al suo posto, fra le pieghe del suo pullover sullo scendiletto, è stato trovato questo biglietto scritto a mano.» Viani gli allungò un foglio spiegazzato.
“Mi prendo la sua cagnetta storpia come garanzia per gli eventuali scherzetti che forse ha pensato di prepararmi. Attenzione a quello che fa, e a presto! D.M.”.
Carlo avvertì il cuore diventare pesante. In quanto tempo si sarebbero accorti che la formula era incompleta? Quanto valeva la vita di un cane, per giunta storpio? Meno di niente per tutto il mondo. Troppo per lui.
L’idea di quel piccolo essere con gli occhi di carbone in mani sconosciute lo fece rabbrividire. Risentì le parole della Pinin, la governante dei De Mei: «È un sadico... seviziava gli animali... ha ucciso il suo cane...»
Era un vero cretino. Non avrebbe dovuto portarla a Strasburgo, aveva ragione la Tilde. Il suo non era amore ma egoismo. Puro e semplice egoismo. Non l’avrebbe più rivista. Impossibile. Inconcepibile. Gli agenti appostati alle uscite della basilica dovevano essere già da ore alle calcagna di quel pazzo.
Questa nuova speranza per un attimo lo sollevò.
Cercò con lo sguardo l’agente Mantovani: «Avete notizie di De Mei?» La donna si avvicinò al letto, mestamente.
«Purtroppo De Mei conosceva bene la mappa della cattedrale. È letteralmente sparito, secondo gli stessi monaci probabilmente attraverso i meandri dei sotterranei che conducono alle segrete. Tutto quello che abbiamo potuto fare per ora, è di segnalare a tutti i commissariati svizzeri la sparizione del cane... nella speranza che...»
«...che la riconoscano mentre passeggia sul lungolago di Ginevra con De Mei? Stronzate.»
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